LE LETTERE |
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mercoledì 12 gennaio 2000, S.
Arcadio |
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Internet e dintorni. Il
computer a scuola, a che serve?
Alessandro Dell'Aira
I computer a scuola li chiamiamo «macchine per
imparare». Le vere «macchine per insegnare»
sono ancora le lanterne magiche, gli episcopi, i
proiettori per diapositive e le lavagne luminose.
Chi dice così vuole dire, tra le righe, che chi
sa insegnare non ha bisogno di essere assistito
dal computer quando insegna, diversamente da chi
impara e da chi fa cose concrete.
Dicono i detrattori della scuola: chi sa fa e chi
non sa insegna. E parlando forbito, insistono: l'insegnare,
per gli insegnanti, è una funzione esoterica,
esternante, di tradizione platonico-aristotelica;
il regno della parola che dilaga sui supporti di
ardesia o di vetro retroilluminato, il monopolio
della comunicazione verbale; mentre il sapere dei
ragazzi d'oggi, sempre secondo gli insegnanti, è
balbettante, poco critico e poco illuminato.
Gli insegnanti si difendono: gli studenti di oggi
imparano poco e spesso non sanno niente, non sono
capaci di leggere, scrivere, parlare, ascoltare
come si deve; se ne sbattono della sintassi,
calpestano la grammatica e l'ortografia, tanto a
correggere ci pensa il computer. Che bell'affare
abbiamo fatto.
Sentite l'una e l'altra campana, ci chiediamo
però la ragione per cui i computer non sono
ancora stati promossi da «macchine per imparare
tutto» a «macchine per insegnare tutto», e non
solo informatica, matematica, lingue straniere,
scienze o disegno tecnico.
Perché? Non è il solito pregiudizio di chi
snobba gli ultimi prodotti della tecnica. Spesso
e volentieri è pura fifa dell'ignoto, così
forte da provocare strane reazioni, condizionate
dal ruolo che si ricopre al momento.
Per cui, se c'è da scambiarsi la sedia davanti
al mostro, sono in genere loro, gli studenti,
saliti come si suole dire in cattedra, ad
apparire più lucidi e reattivi; mentre i docenti,
declassati, in quegli attimi fuggenti sembrano
apprendere pochissimo sia dai loro istruttori
improvvisati sia dalle macchine.
Ammettiamo pure che un insegnante non impari mai
niente da uno studente. Resta il computer:
possiamo almeno imparare a insegnare da lui?
Forse sì, per modo di dire, visto che
maneggiando uno strumento si impara sempre
qualcosa.
Gli esseri umani, lavorando, hanno sempre
imparato qualcosa dagli strumenti inventati dagli
esperti di questa o quella tecnica: dai
raschiatoi d'osso alle zappe di ferro, dai
sestanti ai pallottolieri e ai libri.
Chi è a corto di tecniche deve prima essere
disposto a capire a che serve lo strumento che
sta maneggiando, e poi imparare a usarlo, magari
graffiandosi le mani, dandosi la zappa sui piedi,
uscendo di rotta, impallandosi nel contare,
intendendo fischi per fiaschi a una prima lettura.
Poi magari riesce a trarre qualche vantaggio
dallo strumento, a usarlo in modo più confacente,
a farlo a pezzi, a rimontarlo e a migliorarlo.
Valeva ieri per le fionde della Via Paal e per i
motorini truccati in garage, e vale oggi per i
computer assemblati in mansarda.
![](0012a.jpg)
Questo i ragazzi lo sanno, e gli adulti pure.
Quanto ai computer, anche gli scettici cronici
non mettono più in dubbio la convenienza di
avvalersene come supporto al lavoro intellettuale.
A casa, a scuola, nello studio, in laboratorio,
quando ci si prepara a insegnare diritto, materie
letterarie, filosofia, storia dell'arte, al
riparo da occhi indiscreti, tutti noi, se
possiamo, ci facciamo volentieri aiutare dal
computer o da un collega smanettone. Se però gli
studenti ci guardano, ci diamo un contegno e
ostentiamo la nostra insofferenza per i manuali
barbosi o per le tecnologie che corrono troppo, e
ripetiamo che non ce ne può importare di meno
delle cabale del linguaggio infotelematico. Forse
ci serve un alibi per la nostra difficoltà a
digerire una fetta di mondo che ci sta sullo
stomaco, e così parliamo di folklore tecnologico,
di perdite di tempo, di mondi che non esistono,
di relazioni prive di umanità, di ruoli
incompatibili. Però dimentichiamo che spesso
docenti e studenti fanno fatica a capirsi anche
quando comunicano a voce con il vocabolario di
base. Perché spesso tra loro non c'è
compatibilità, manca l'accordo sul come capirsi
al volo dal vivo e a distanza, da uno a uno, da
uno a molti, da molti a uno e da molti a molti.
In altre parole, manca un protocollo d'intesa tra
le persone che occupano lo stesso locale.
Prendiamone uno a caso, un'aula scolastica, dove
cercare un protocollo d'intesa costa solo lo
sforzo di farlo (e non è poco). Molto meno,
sicuramente, ci costa farlo da casa con il mondo
in rete, tanto quei protocolli di comunicazione
non dipendono da noi e alla fine le bollette c'è
sempre qualcuno le paga, o noi stessi, se siamo
genitori, o i nostri genitori, se siamo figli (i
nonni per il momento non c'entrano: beati loro, i
problemi di compatibilità e di interfaccia li
risolvono ancora alla spiccia). In questo nostro
mare di incomunicabilità diffusa, ognuno sulla
sua zattera multimediale, basta conoscere l'internettenglish
e smanettare. Chi sa dialogare bene a distanza
con il computer di solito riesce a farsi capire
meglio nel dialogo dal vivo.
L'importante è che ci sia almeno la connessione
tra chi comunica, e in ogni momento si può
riprovare a entrare in contatto. Questo vale
anche per le aule scolastiche.
E allora il computer, a scuola, a che serve? Alla
comunicazione o alla ricerca? E a chi serve di
più, a chi insegna o a chi impara? E cosa
indagare, cosa comunicare, e a chi? Il guaio è
che la telematica, al di fuori del mondo
accademico, della ricerca applicata o dell'e-business,
è usata ancora di prevalenza per la
comunicazione destrutturata o di evasione.
E' anche vero, d'altra parte, che in fatto di
insegnamento e apprendimento integrati i
pregiudizi sono duri a morire, anche quando non
si parla di nuove tecnologie.
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