CULTURA  
mercoledì 13 settembre 2000, S. Giovanni Crisostomo  
   
A che serve la storia?
Hobsbawm a Mantova tra Hofer,
felicità, economia ed eroi nascosti

di Alessandro Dell'Aira







DOMANDE evasive, please, che alle risposte secche ci penso io. Ribaltiamo una storica freddura da caffè attribuita a Forlani, ed ecco il succo del dibattito tra Eric John Hobsbawm e la platea del Festivaletteratura di Mantova, alle battute conclusive. Poderosa la prolusione del patriarca della storiografia contemporanea, marxista convinto e dichiarato in termini inusuali ai tempi nostri. Si lascia andare a un flash sul metodo della ricerca, prima della tenzone con Edmondo Berselli, suo interlocutore, vicedirettore della rivista «Il Mulino» nonché columnist di «Stampa» e «Sole 24 ore», leale e pungente nella parte del moschettiere del pensiero neoliberale. Spettacolo assicurato. Per assistervi, ingresso seimila lire ben pagate, almeno seicento persone stipate spalla contro spalla nel Cortile della Cavallerizza del Palazzo Ducale, sotto il tendone beige e panna spaziale ancorato su un prato sufficientemente vegeto, date le circostanze.
Hobsbawm parte in bellezza, in italiano, con un omaggio a Mantova. Un amarcord di visite giovanili, un'antica canzone e un pizzico di umorismo involontario su Andreas Hofer, tirolese ribelle e resistente, che Bonaparte, «finalmente» (inglese finally) passò per le armi. Voleva dire «alla fine». Agita una gamba, nel dirlo, e fa secca la traversina di legno della sua sedia pieghevole stile anni Cinquanta. Berselli gli dà quasi del luddista («Ha spaccato la sedia, però»). Lui, pronto, ribatte: «Sono ancora capace di fare qualcosa». Nello spirito, oltre che nel fisico, è la bella copia di ciò che sarà Woody Allen nel 2020.
Incontenibile, a ottantatré anni suonati. Chi in questi giorni gli ha dato bonariamente del trampoliere o del burattino intagliato, si è fermato alla scorza. Il vecchio leone parla dei laburisti al governo nel suo paese dal'45 al'51, alla fine sconfitti ma riusciti a dare l'impronta per i trent'anni a venire. Berselli, di sorpresa, gli chiede se questo vale anche per la Thatcher sconfitta da Blair. «Certamente», ribatte lui, «la lady ha fatto anche di meglio, tra quarant'anni ne riparliamo».
Per Hobsbawm la storia è anche letteratura. Per questo lo hanno chiamato a Mantova. Ma la letteratura, a che serve? La letteratura, e i festival della letteratura, servono anche a vendere i libri. Hobsbawm risponde così, con qualche ora di anticipo, al quesito che dopo qualche ora si è posto Umberto Eco in Piazza Castello. Eco, con grande sportività, si è prestato a fare il tappabuchi di lusso. Tahar Ben Jelloun non è venuto a farsi intervistare da Alain Elkann. Questo festival nato dal volontariato è straordinario, fa concorrenza a quello paludato di Venezia. Un leone di Mantova, almeno di terracotta, oltre che a Umberto Eco dovrebbero darlo a lui, a Eric John Hobsbawm, bella copia di Allen e come Allen invaso dal virus del jazz. Tanto è vero che quarant'anni fa, come giornalista, il vecchio leone scriveva a Londra con lo pseudonimo di Francis Newton, cornetta di Billie Holiday, ed era già docente di storia contemporanea del Birbeck University College di Londra. Poi è andato in pensione e ha continuato a girare il mondo da visiting professor della New School for Social Researches di New York.
Hobsbawm è uno storico non comune. A furia di studiare l'Ottocento, lo ha fatto sconfinare in testa e in coda.
In compenso ha scorciato il Novecento, costringendolo in modo convenzionale tra il 1917 e il 1991 (Il titolo «Il secolo breve» si deve all'editore italiano della sua più celebre monografia, quello originale è «The Age of Extremes»). Dopo il secolo dei valori, quello degli eccessi. Di Hobsbwam si commenta ciò che si dice di tutti i dottori di Cambridge: che mette molta cura nel raccontare quello che studia. Questo lo ha reso molto popolare, anche in ambienti non accademici e di segno politico diverso dal suo, in questo mondo di cittadini che lentamente si avviano a essere consumatori di benessere e felicità. Ma quale felicità? Il sottoprodotto della crescita economica, dice Hobsbawm. Può dire tutto quello che vuole. Le coscienze che sa di non poter smuovere, lui le scandalizza. I suoi eroi sono «i nascosti della storia». Gli chiede Berselli: lei è un marxista ortodosso o eterodosso? Hobsbawm non accetta etichette. Il suo marxismo è una dimensione della ricerca, con le sue priorità. Per esempio: la multidimensionalità della vita umana. Per esempio: emanciparsi dagli schemi anziché esserne schiavi, in questi anni di poche guerre ma senza pace, con trenta milioni di rifugiati, uno scenario paragonabile agli anni della catastrofe postbellica. Non parliamo di scontro di civiltà, please, invochiamo piuttosto il principio di speranza in una vita migliore, alimentandolo con la passione politica. Il problema è che, spesso, dietro il desiderio di pace c'è il vuoto. Il declino delle ideologie rivoluzionarie ha quasi svuotato le coscienze della tensione verso le scelte non rivoluzionarie.
E la terza via, chiede Berselli? E' un concetto topografico, dice Hobsbawm scandendo le parole. Il sogno inconfessato dei politici è la conquista permanente del potere attraverso le elezioni. E' mezzogiorno in punto e gli si sente quasi ronzare il cervello su un sottofondo di campane. Si sono perse le carte del navigare sociale. L'intervista pubblica è quasi finita. Che cosa rimane allora, professore? I valori e le tradizioni dell'Illuminismo, risponde Hobsbawm. I cacciatori di autografi si accalcano, con in mano il suo «Gente non comune», la raccolta di saggi pubblicata in Italia da Rizzoli qualche settimana fa.