Storia. L'incredibile
vicenda della Fredensborg
Su quella nave c'erano
gli schiavi dei norvegesi
di Alessandro Dell'Aira
La Fredensborg alla
fonda nell'aprile del 1768
Dipinto di Ants Lapson (1996)
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QUANDO SI SEPPE delle scoperte subacquee di
Svalesen e dei suoi amici, i norvegesi stentavano
a crederci. Non avrebbero mai detto che i loro
avi fossero implicati nella tratta atlantica.
Possibile che la Fredensborg, quella fregata di
quasi trecento tonnellate di stazza e trenta
metri di lunghezza, di proprietà di una
Compagnia di Copenhagen e naufragata nei pressi
di Arendal, nello Skagerrak, fosse una nave
negriera? Che venisse dalle Isole Vergini, carica
di prodotti coloniali? Che stesse per imbarcare
merce europea da barattare ad Accra con centinaia
di schiavi? E che quegli schiavi li avrebbe
portati nei Caraibi?
La vicenda della Fredensbord è diversa da quella
della nave spagnola Amistad, ricostruita da
Spielberg in uno dei suoi più famosi film. Nel
1839 l'Amistad aveva preso a bordo all'Avana una
cinquantina di schiavi della Sierra Leone,
deportati a Cuba da un negriero portoghese quando
gli accordi tra la Spagna e l'Unione degli Stati
americani avevano ormai messo fine a quel
traffico. Gli africani si impadronirono dell'Amistad
nella speranza di sottrarsi al loro destino.
Catturati dalla guardia costiera del Connecticut,
processati ed assolti perché riconosciuti
titolari del diritto di aspirare alla libertà,
tornarono in Africa. Di lì a pochi anni, nel
1772, una sentenza inglese avrebbe condannato per
la prima volta la schiavitù, per ragioni
umanitarie ma anche per contrastare il vantaggio
economico di chi aveva schiavi e li impiegava
nella produzione, rispetto a chi non li aveva.
Gli studi sulla tratta atlantica e l'olocausto
degli africani si sono moltiplicati in questi
ultimi anni. Leif Svalesen, per esempio, nel 1996
aveva già pubblicato il suo libro in Norvegia,
aiutandosi con un libro più antico: il giornale
di bordo della Fredensborg, portato in salvo con
altri documenti dal suo capitano Johan Frantzen
Ferentz e dal sottocapo Christian Hoffman.
Svalesen ha cercato quelle carte presso gli
archivi danesi e norvegesi, finché non le ha
scovate. E' sempre così: gli scavi, le
immersioni migliori si fanno nei fondi delle
biblioteche e nei faldoni degli archivi. Se poi a
studiare le carte è la stessa persona che sa
come leggere il suolo o il sito sommerso, i
risultati vengono.
La Fredensborg si incagliò sugli scogli dell'isola
di Tromoy presso Arendal. A terra, di fronte a
quel tratto di mare, oggi c'è un tumulo di
pietre grezze con una targa. Tra gli oggetti
ripescati, una macina di pietra calcarea
proveniente dalla regione di Accra, zanne di
elefante e di ippopotamo, ceppi, catene. Al
momento del naufragio, la nave aveva a bordo
zucchero, legno pregiato, tabacco, cotone. Le
raffinerie di zucchero di Halden e Trondheim
erano in chiara relazione con quel commercio.
Stando al diario del capitano, la Fredensborg
aveva trasferito dal Ghana alle Isole Vergini
duecentosessantacinque schiavi, trenta dei quali
erano morti durante la traversata. La stessa
sorte era toccata a sedici dell'equipaggio e a
due passeggeri. Ogni viaggio era un'incognita, ma
c'erano istruzioni precise su come mantenere «la
pace e l'ordine» a bordo. Poi, quel naufragio
sottocosta, in acque basse, durante una tempesta
di vento. Si salvarono tutti: trentanove tra
marinai e ufficiali, tre passeggeri e due schiavi.
Svalesen ha rimesso insieme il puzzle. Ha fatto
un bilancio del traffico di schiavi gestito da
Danimarca e Norvegia, stimandolo in centomila
unità. Ha indagato sulle malattie dei deportati,
le armi e i regolamenti di bordo, gli scali, gli
scambi, le merci, fino all'ultimo barilotto di
rum. Si è messo sulla scia della Fredensborg e
ne ha ripercorso la rotta triangolare, trovando
tracce della presenza norvegese nel Ghana e nei
Caraibi. In questi giorni è ad Accra a
presentare il suo libro, uscito in versione
inglese qualche settimana fa per i tipi dell'Indiana
University Press. Dal 1974, anno della scoperta
del relitto, la sua vita è cambiata. L'Unesco,
nel 1995, gli ha chiesto di curare per le scuole
una storia a fumetti sull'ultimo viaggio della
Fredensborg. Una mostra tematica: «Schiavi,
Avorio, Oro», ha girato i musei navali della
Scandinavia. Un'altra mostra, permanente, è
stata allestita a Fort Frederick nelle Isole
Vergini.
Il relitto di Arendal, per datazione, ubicazione
e dovizia di materiale, è il più interessante
della categoria. È curioso come nell'arco di tre
anni se ne siano ritrovati altri due, in luoghi
lontanissimi tra loro: nel 1972, il relitto della
nave negriera inglese Henrietta Marie, affondata
nel 1700 presso le coste della Florida; e nel
1973 quello della Don Francisco, del portoghese
Francisco Feliz de Souza, con base nell'attuale
Benin, sequestrata nel 1837 nei Caraibi con un
carico di 433 schiavi africani, rimessa in mare a
Londra con il nome di James Matthew e affondata
nel 1841 presso Freemantle in Australia.
Frammenti di rotte e di storie da ricomporre, in
un mondo tutt'altro che immune da schiavitù
antiche e nuove.
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Il
sito
del naufragio
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