Novecento,
il suo profeta è russo
Un giudice trentino e Dostoevskij: per capire i
mali del secolo
Il libro. Con Forlenza alla scoperta di chi ha
visto i nostri fantasmi
di Alessandro Dell'Aira
«DOSTOEVSKIJ profeta del Novecento» è
il saggio che Francesco Forlenza, lucano e
giudice a Trento, ha dedicato di recente al
grande scrittore russo del secolo scorso. La tesi
principale del libro, che fin dalle prime pagine
si presenta come un pamphlet, è che Dostoevskij,
nella sua opera, rispecchia tutti i mali del
secolo successivo, e che soprattutto, con
cinquant'anni di anticipo, ha evocato il fantasma
delle società totalitarie.
La propensione per la ricerca storico-letteraria
in questo caso non ha limiti né vincoli di
specializzazione, tanto è vero che Forlenza si
è già cimentato con altri argomenti, almeno in
apparenza molto diversi da questo: la congiura
antispagnola di Tommaso Campanella e gli
intellettuali del Novecento italiano, tra
fascismo, comunismo e terrorismo. Quest'ultimo
saggio gli è valso il Premio internazionale
«Tito Casini».
La passione di Forlenza per Dostoevskij è
alimentata anche dalla sua professione di giudice.
Il critico, infatti, riconosce al suo autore un'ottima
conoscenza della violenza del mondo e dei
tribunali: competenza che non mancava al nostro
Verga, e che invece faceva difetto a Victor Hugo,
nei cui romanzi sociali, come lo stesso
Baudelaire sosteneva, c'era scarsa capacità di
discriminare tra il sublime e il ridicolo.
Dostoevskij, scrive Forlenza, domina «i
dinamismi delle Corti d'Assise, la mentalità
tipica dei giurati e dei giudici di professione».
Anche in questo risiede la sua attualità.
«Delitto e castigo», del resto, ha ispirato in
questi anni un film di Rob Schmidt, e moltissimi
uomini di spettacolo, fra cui Glauco Mauri,
considerano i personaggi dei romanzi di
Dostoevskij «sconvolgenti» come quelli del
teatro di Shakespeare.
Non sono molti, oggi, specie tra i giovani, ad
aver letto «Delitto e castigo» o «I fratelli
Karamazov». Ciò però non vuol dire che sia
morto il romanzo, o che sia morta la sensibilità
dei giovani. Vuol dire semmai che nella nostra
società truculenta e cannibale non ci si
accontenta più facilmente di uno specchio
monomediale come il romanzo. Vuol dire che i
tempi sono cambiati, che la sensibilità è
cambiata e che sono cambiate le forme dell'arte.
Che oggi si legga poco Dostoevskij non è dunque
una colpa giovanile o generazionale, se pensiamo
che scrivere di Dostoevskij nel 1915 riusciva
difficile persino a György Lucáks, filosofo e
teorico del romanzo, che pur conoscendone a fondo
l'opera rimosse di continuo l'idea di dedicarle
un saggio, e che quando parlava, o scriveva di
quel suo progetto, si proponeva di pubblicarlo
come un compendio della propria metafisica e
della propria filosofia della storia.
Il perché è presto detto. Dostoevskij, agli
europei della generazione di Lucáks, tra grande
guerra e speranze di riscatto morale e sociale,
ricordava la morte di Dio e la rinascita di
Cristo, la ribellione individuale e le colpe di
massa, la povera gente e i santi peccatori. Tutto
il male del mondo e il suo contrario. In un
appunto paradossale, Lucáks afferma: Dostoevskij
non ha scritto alcun romanzo, con ciò volendo
dire che se i romanzi di Dostoevskij sono la
sintesi del mondo abbandonato da Dio, l'arte del
Novecento, da quando mancano i modelli certi da
copiare, s'è affrancata dalla schiavitù di
sintetizzare il mondo copiandolo, ed è diventata
autonoma.
E' questo paradosso che contesta indirettamente
Forlenza, quando attribuisce al romanzo «I
dèmoni», uscito nel 1872, il valore di
documento storico. Non solo perché Dostoevskij
lo scrisse partendo da un delitto vero, quello di
Ivan Ivanov, assassinato in nome della causa
anarchica dal suo stesso compagno Sergei Necaev;
ma perché Dostoevskij vaticinò che gli uomini
del Novecento avrebbero inondato di sangue la
terra, e condannò il liberalismo dilettantesco
degli intellettuali, «cattivi maestri» che
corteggiano i nichilisti.
Tra gli italiani che meglio degli altri hanno
compreso il messaggio profetico di Dostoevskij e
hanno saputo coglierne classicità e religiosità,
Forlenza ne ricorda due: Piero Gobetti e Leone
Ginzburg. A questo panorama critico si è
aggiunta di recente la pubblicazione del
manoscritto frammentario di Lukács, curata da
Michele Cometa quasi contemporaneamente al testo
di Forlenza, uscito per i tipi delle Edizioni
Segno.
---------------
|
|
Francesco Forlenza, Dostoevskij
profeta del Novecento.
Edizioni Segno,
Udine, 2000. 152 pagine, lire 20.000. |
|
|