CULTURA
giovedì 15 febbraio 2001, SS. Faustino e Giovita
   

Novecento,
il suo profeta è russo




Un giudice trentino e Dostoevskij: per capire i mali del secolo
Il libro. Con Forlenza alla scoperta di chi ha visto i nostri fantasmi





   


di Alessandro Dell'Aira



«DOSTOEVSKIJ profeta del Novecento» è il saggio che Francesco Forlenza, lucano e giudice a Trento, ha dedicato di recente al grande scrittore russo del secolo scorso. La tesi principale del libro, che fin dalle prime pagine si presenta come un pamphlet, è che Dostoevskij, nella sua opera, rispecchia tutti i mali del secolo successivo, e che soprattutto, con cinquant'anni di anticipo, ha evocato il fantasma delle società totalitarie
.


La propensione per la ricerca storico-letteraria in questo caso non ha limiti né vincoli di specializzazione, tanto è vero che Forlenza si è già cimentato con altri argomenti, almeno in apparenza molto diversi da questo: la congiura antispagnola di Tommaso Campanella e gli intellettuali del Novecento italiano, tra fascismo, comunismo e terrorismo. Quest'ultimo saggio gli è valso il Premio internazionale «Tito Casini».

La passione di Forlenza per Dostoevskij è alimentata anche dalla sua professione di giudice. Il critico, infatti, riconosce al suo autore un'ottima conoscenza della violenza del mondo e dei tribunali: competenza che non mancava al nostro Verga, e che invece faceva difetto a Victor Hugo, nei cui romanzi sociali, come lo stesso Baudelaire sosteneva, c'era scarsa capacità di discriminare tra il sublime e il ridicolo.

Dostoevskij, scrive Forlenza, domina «i dinamismi delle Corti d'Assise, la mentalità tipica dei giurati e dei giudici di professione». Anche in questo risiede la sua attualità. «Delitto e castigo», del resto, ha ispirato in questi anni un film di Rob Schmidt, e moltissimi uomini di spettacolo, fra cui Glauco Mauri, considerano i personaggi dei romanzi di Dostoevskij «sconvolgenti» come quelli del teatro di Shakespeare.

Non sono molti, oggi, specie tra i giovani, ad aver letto «Delitto e castigo» o «I fratelli Karamazov». Ciò però non vuol dire che sia morto il romanzo, o che sia morta la sensibilità dei giovani. Vuol dire semmai che nella nostra società truculenta e cannibale non ci si accontenta più facilmente di uno specchio monomediale come il romanzo. Vuol dire che i tempi sono cambiati, che la sensibilità è cambiata e che sono cambiate le forme dell'arte. Che oggi si legga poco Dostoevskij non è dunque una colpa giovanile o generazionale, se pensiamo che scrivere di Dostoevskij nel 1915 riusciva difficile persino a György Lucáks, filosofo e teorico del romanzo, che pur conoscendone a fondo l'opera rimosse di continuo l'idea di dedicarle un saggio, e che quando parlava, o scriveva di quel suo progetto, si proponeva di pubblicarlo come un compendio della propria metafisica e della propria filosofia della storia.

Il perché è presto detto. Dostoevskij, agli europei della generazione di Lucáks, tra grande guerra e speranze di riscatto morale e sociale, ricordava la morte di Dio e la rinascita di Cristo, la ribellione individuale e le colpe di massa, la povera gente e i santi peccatori. Tutto il male del mondo e il suo contrario. In un appunto paradossale, Lucáks afferma: Dostoevskij non ha scritto alcun romanzo, con ciò volendo dire che se i romanzi di Dostoevskij sono la sintesi del mondo abbandonato da Dio, l'arte del Novecento, da quando mancano i modelli certi da copiare, s'è affrancata dalla schiavitù di sintetizzare il mondo copiandolo, ed è diventata autonoma.

E' questo paradosso che contesta indirettamente Forlenza, quando attribuisce al romanzo «I dèmoni», uscito nel 1872, il valore di documento storico. Non solo perché Dostoevskij lo scrisse partendo da un delitto vero, quello di Ivan Ivanov, assassinato in nome della causa anarchica dal suo stesso compagno Sergei Necaev; ma perché Dostoevskij vaticinò che gli uomini del Novecento avrebbero inondato di sangue la terra, e condannò il liberalismo dilettantesco degli intellettuali, «cattivi maestri» che corteggiano i nichilisti.

Tra gli italiani che meglio degli altri hanno compreso il messaggio profetico di Dostoevskij e hanno saputo coglierne classicità e religiosità, Forlenza ne ricorda due: Piero Gobetti e Leone Ginzburg. A questo panorama critico si è aggiunta di recente la pubblicazione del manoscritto frammentario di Lukács, curata da Michele Cometa quasi contemporaneamente al testo di Forlenza, uscito per i tipi delle Edizioni Segno.

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  Francesco Forlenza, Dostoevskij profeta del Novecento.
Edizioni Segno, Udine, 2000. 152 pagine, lire 20.000.