La vita di padre Osti, da
Spormaggiore a Pojo
BERARDO E IL CHE
Un francescano trentino
tra gli indios boliviani
di Alessandro Dell'Aira
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PADRE
BERARDO OSTI, nell'infermeria del
convento trentino, è una vecchia
quercia di San Francesco. Sulla
copertina di «Tatahuasi», il
suo libro di memorie, è
fotografato in posa come un
Sancio Panza giovane a cavallo
del suo Pino, comprato in Perù
durante una delle tante
escursioni dalla Bolivia, a una
fiera campesina frontaliera. Il
Pino è un cavallo che fece
parecchie piaghe sotto la sella,
dal tanto andare e venire
missionario del suo padrone, e
che a parte un disarcionamento
gli fu fedele fino alla morte, o
meglio fino all'ultima bistecca. |
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Padre
Berardo a Pojo non c'era, quel giorno che gli
amici gli scrissero: se vuoi sapere com'è tenero
il tuo Pino, devi affrettarti a tornare. Tenero e
dolce, Pino, anche da bistecca, altro che quella
camionetta Chevrolet di seconda mano, nata con
targa diplomatica, comprata al console onorario d'Italia
a un prezzo di favore, poco docile e blasonata e
sempre troppo lusso per uno come padre Berardo,
abilissimo come parroco e cavaliere, chissà
quanto affidabile al volante.
Padre Berardo
quelle strade le ha percorse con ogni mezzo per
quasi trent'anni, in nome del Signore, della
Madonna e dei santi, perché ha sempre amato i
poveri e dal 1950 anche quell'altipiano solenne,
con gli indios dalla lingua verde di coca e
devoti a Sant'Antonio, che il giorno della festa
del santo invece della statua portavano in
processione una pietra enorme con sopra una croce
di Sant'Andrea scolpita da madre Natura, più
grossa di quelle che spaccavano i semiassi della
sua Chevrolet, e lui a spiegargli che no, che era
la statua da portare in processione, o che almeno
chiamassero uno scalpellino e di quel masso
facessero un Sant'Antonio, e loro no, fermi e
testardi nella loro fede da vicereame profondo,
così diversa dalla sua.
Nel dicembre del
1949 Padre Berardo era partito in treno da
Mezzocorona con il notturno per Assisi, e
ottenuto il benestare del reverendo padre
generale era andato a Genova, e a Genova era
salito sull'Anna C. Aveva messo piede in America
a Santos, poi a Montevideo e a Buenos Aires, e da
lì aveva preso il treno, puntando al far-west
dell'America latina. Per strada di gente ne aveva
incontrata, anche molti italiani, come il
confratello padre Zappaterreni, già confessore
del duce e dei repubblichini di Salò. E ora a
Pojo, provincia di Cochabamba, Bolivia, padre
Berardo si sentiva a casa, perché a parte
qualche dente di troppo che il dentista di
Cochabamba aveva fatto poca fatica a cavargli,
per il resto era sempre in gamba in mezzo agli
indios, e non per merito di quel soldo brasiliano
che aveva raccattato sotto la funicolare di Rio
de Janeiro, appena arrivato in America, e che
teneva in un cassetto della tatahuasi, la casa
del padre. Il tata, il padre di Pojo era lui,
Berardo Osti. Sempre in gamba grazie a Dio, a
quel Dio che arrivava dove non arrivava il suo
cavallo Pino, e al cavallo Pino che arrivava dove
non arrivava la sua Chevrolet. E dire che il
bivio di Pojo non era poi così pericoloso, visto
che nel settembre del 1967 Che Guevara, che
qualche portafortuna in tasca doveva averlo, si
era salvato sgommando dall'agguato di una dozzina
di soldati appostati dietro la chiesa sul bivio
di Pojo.
Tata Berardo da Spormaggiore se lo ricordava bene,
il Che, e non perché lo avesse visto ma perché
aveva saputo che era passato in segreto dal bivio
di Pojo uno di quei giorni che lui con un colpo
di schioppo aveva centrato un condor che gli
stava volando sulla testa a settanta metri d'altezza.
E che il Che era morto lo aveva detto anche l'apparecchio
radio, che per il tata era la voce del mondo, non
solo the Voice of America. Perché lui in America
c'era già, nell'America dei poveretti, lui
magari non la pensava come il Che, ma come il Che
era uno di quelli che vivevano per aiutare i
poveretti a sopravvivere. Scriveva e scriveva,
tata Berardo, la voce dei campesinos, e montava
le brutte e le belle notizie dell'apparecchio con
le notizie sensazionali da Pojo, la visita di
Paolo VI all'Onu e una mezza zucca piena di latte
caldo con il rum, l'attentato a John Kennedy e la
consegna delle razioni della Caritas, l'assassinio
di Luther King e il collaudo dell'acquedotto,
Amstrong e Aldrin sulla luna e le auto da corsa
polverose della tappa Sucre-Cochabamba. Una
cronaca francescana all'antica. L'acqua potabile
giunta come la manna nel 1968, con gli aiuti dei
consiglieri Usa, e la febbre gialla dell'anno
dopo, che si portò via padre Attilio, e i
pidocchi presi dal vescovo Eccher la notte che
dormì in casa di un indio che gli aveva offerto
le sue coperte migliori, e tante altre cose
curiose che aveva visto, come i karachupa, gli
opossum guastapollai, o quel cane che aveva
rincorso il suo vagone per dieci chilometri e
lasciava gli ossi a terra per il ritorno, sicuro
del fatto suo perché dietro a quel treno non c'erano
concorrenti, e intanto correva a fianco del
vagone pur di strappare ossi, non ai passanti
affamati come lui, ma ai passeggeri come padre
Berardo.
Così, quel giorno
che il paesaggio si fermò con il treno alla
stazione di Cochabamba, il padre diventò tata e
cominciò a parlare alla gente della Bolivia, ai
buoni come ai meno buoni, solo che con questi
ultimi cercò di non essere troppo tenero, per
paura che se ne approfittassero, e anche perché
non pensassero di piegare la religione e la
morale del padre ai loro capricci. In questo il
tata da Spormaggiore era un osso duro. Per questo
gli indios di Pojo, oltre al loro affetto, un
giorno gli donarono una pergamena e una medaglia
d'oro. Una medaglia al valore di San Francesco.
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