LA FEDE
domenica 18 marzo 2001, S. Cirillo da Gerusalemme
   
La vita di padre Osti, da Spormaggiore a Pojo

BERARDO E IL CHE
Un francescano trentino
tra gli indios boliviani


di Alessandro Dell'Aira







PADRE BERARDO OSTI, nell'infermeria del convento trentino, è una vecchia quercia di San Francesco. Sulla copertina di «Tatahuasi», il suo libro di memorie, è fotografato in posa come un Sancio Panza giovane a cavallo del suo Pino, comprato in Perù durante una delle tante escursioni dalla Bolivia, a una fiera campesina frontaliera. Il Pino è un cavallo che fece parecchie piaghe sotto la sella, dal tanto andare e venire missionario del suo padrone, e che a parte un disarcionamento gli fu fedele fino alla morte, o meglio fino all'ultima bistecca.

Padre Berardo a Pojo non c'era, quel giorno che gli amici gli scrissero: se vuoi sapere com'è tenero il tuo Pino, devi affrettarti a tornare. Tenero e dolce, Pino, anche da bistecca, altro che quella camionetta Chevrolet di seconda mano, nata con targa diplomatica, comprata al console onorario d'Italia a un prezzo di favore, poco docile e blasonata e sempre troppo lusso per uno come padre Berardo, abilissimo come parroco e cavaliere, chissà quanto affidabile al volante.

Padre Berardo quelle strade le ha percorse con ogni mezzo per quasi trent'anni, in nome del Signore, della Madonna e dei santi, perché ha sempre amato i poveri e dal 1950 anche quell'altipiano solenne, con gli indios dalla lingua verde di coca e devoti a Sant'Antonio, che il giorno della festa del santo invece della statua portavano in processione una pietra enorme con sopra una croce di Sant'Andrea scolpita da madre Natura, più grossa di quelle che spaccavano i semiassi della sua Chevrolet, e lui a spiegargli che no, che era la statua da portare in processione, o che almeno chiamassero uno scalpellino e di quel masso facessero un Sant'Antonio, e loro no, fermi e testardi nella loro fede da vicereame profondo, così diversa dalla sua.

Nel dicembre del 1949 Padre Berardo era partito in treno da Mezzocorona con il notturno per Assisi, e ottenuto il benestare del reverendo padre generale era andato a Genova, e a Genova era salito sull'Anna C. Aveva messo piede in America a Santos, poi a Montevideo e a Buenos Aires, e da lì aveva preso il treno, puntando al far-west dell'America latina. Per strada di gente ne aveva incontrata, anche molti italiani, come il confratello padre Zappaterreni, già confessore del duce e dei repubblichini di Salò. E ora a Pojo, provincia di Cochabamba, Bolivia, padre Berardo si sentiva a casa, perché a parte qualche dente di troppo che il dentista di Cochabamba aveva fatto poca fatica a cavargli, per il resto era sempre in gamba in mezzo agli indios, e non per merito di quel soldo brasiliano che aveva raccattato sotto la funicolare di Rio de Janeiro, appena arrivato in America, e che teneva in un cassetto della tatahuasi, la casa del padre. Il tata, il padre di Pojo era lui, Berardo Osti. Sempre in gamba grazie a Dio, a quel Dio che arrivava dove non arrivava il suo cavallo Pino, e al cavallo Pino che arrivava dove non arrivava la sua Chevrolet. E dire che il bivio di Pojo non era poi così pericoloso, visto che nel settembre del 1967 Che Guevara, che qualche portafortuna in tasca doveva averlo, si era salvato sgommando dall'agguato di una dozzina di soldati appostati dietro la chiesa sul bivio di Pojo.





Tata Berardo da Spormaggiore se lo ricordava bene, il Che, e non perché lo avesse visto ma perché aveva saputo che era passato in segreto dal bivio di Pojo uno di quei giorni che lui con un colpo di schioppo aveva centrato un condor che gli stava volando sulla testa a settanta metri d'altezza. E che il Che era morto lo aveva detto anche l'apparecchio radio, che per il tata era la voce del mondo, non solo the Voice of America. Perché lui in America c'era già, nell'America dei poveretti, lui magari non la pensava come il Che, ma come il Che era uno di quelli che vivevano per aiutare i poveretti a sopravvivere. Scriveva e scriveva, tata Berardo, la voce dei campesinos, e montava le brutte e le belle notizie dell'apparecchio con le notizie sensazionali da Pojo, la visita di Paolo VI all'Onu e una mezza zucca piena di latte caldo con il rum, l'attentato a John Kennedy e la consegna delle razioni della Caritas, l'assassinio di Luther King e il collaudo dell'acquedotto, Amstrong e Aldrin sulla luna e le auto da corsa polverose della tappa Sucre-Cochabamba. Una cronaca francescana all'antica. L'acqua potabile giunta come la manna nel 1968, con gli aiuti dei consiglieri Usa, e la febbre gialla dell'anno dopo, che si portò via padre Attilio, e i pidocchi presi dal vescovo Eccher la notte che dormì in casa di un indio che gli aveva offerto le sue coperte migliori, e tante altre cose curiose che aveva visto, come i karachupa, gli opossum guastapollai, o quel cane che aveva rincorso il suo vagone per dieci chilometri e lasciava gli ossi a terra per il ritorno, sicuro del fatto suo perché dietro a quel treno non c'erano concorrenti, e intanto correva a fianco del vagone pur di strappare ossi, non ai passanti affamati come lui, ma ai passeggeri come padre Berardo.

Così, quel giorno che il paesaggio si fermò con il treno alla stazione di Cochabamba, il padre diventò tata e cominciò a parlare alla gente della Bolivia, ai buoni come ai meno buoni, solo che con questi ultimi cercò di non essere troppo tenero, per paura che se ne approfittassero, e anche perché non pensassero di piegare la religione e la morale del padre ai loro capricci. In questo il tata da Spormaggiore era un osso duro. Per questo gli indios di Pojo, oltre al loro affetto, un giorno gli donarono una pergamena e una medaglia d'oro. Una medaglia al valore di San Francesco.