La guerra
sulla pelle
Un incontro
sull'esperienza al fronte
|
di Alessandro
Dell'Aira
|
Soldati
in osservazione sull'Ortles
|
NELL'ULTIMO degli
incontri sul ciclo di approfondimenti
sulla prima guerra mondiale organizzati a
Palazzo Trentini dal Centro Studi sulla
Storia dell'Europa Orientale in
collaborazione con il Museo Storico in
Trento, che si è tenuto la settimana
scorsa, Massimo Libardi, presentato da
Fernando Orlandi, ha affrontato il tema
dell'"esperienza" di chi ha
vissuto e raccontato la prima guerra
mondiale. La Grande guerra traccia un
confine tra il prima e il poi, un confine
che oltre che politico e sociale è
innanzittutto un confine mentale e che
così è percepito da molti degli
scrittori che hanno narrato quegli
avvenimenti.
Chi ha confidenza con le fonti di quegli
anni, sa che il termine esperienza
ricorre di continuo nella sterminata
letteratura bellica, dalle memorie
autobiografiche popolari e colte, ai
romanzi, alla cronaca, alla propaganda.
Il mito di Ulisse, carico di esperienza
di uomini e cose, di sofferenze
accumulate e affinate sotto le mura di
Troia, sembra essersi sbriciolato in
milioni di personaggi, umili, anonimi,
strappati alle loro case e alle famiglie
da un Moloch impietoso che assumendo
mille sembianze e mille maschere li ha
chiamati al fronte, a combattere. La più
famosa di queste maschere della grande
guerra è il volto quadrato dell'inglese
Kitchener, neoministro della guerra, che
con gli occhi chiari leggermente strabici
e l'indice puntato sui passanti li
adesca, li ipnotizza e li costringe a un
atto volontario di adesione. La guerra!
Un'esperienza da vivere subito. La patria
è in pericolo, chiama, e non hai tempo
di pensare a come e quando raccontare la
tua esperienza, se mai ti sarà dato di
raccontarla.
E invece chi parte e va al fronte, per
esorcizzare la paura, sognando di
tornare, si ritaglia uno spazio e trova
il tempo di narrare la guerra a se
stesso, alla ragazza, ai parenti, ai
paesani, ai posteri, anche se non ha
letto Musil e non sa del suo invito
pressante, più volte ripetuto, a
raccontare il fronte com'è. Per la
storia e per ingannare il tempo. Chi è
rimasto a casa non può ignorare, deve
sapere. Per non dimenticare. Una cosa
immane, mai vista una guerra così. Un
senso di fluidità, l'urgenza di
redimere, di tendere a un luogo che non
hai, un camminamento che ti porta al
futuro, o in nessun luogo. Un paesaggio
che si tinge di altri colori e subito si
oscura, avvolto da una nube purpurea. Una
rottura, uno sradicamento di massa,
colonne di fanti tutti uguali che vanno
alla guerra come gli operai delle
officine e si cacciano in quei formicai
che si chiamano trincee, corridoi di
miniere scoperchiate, da dove vedi un
nastro di cielo scolorito, dove fai una
vita da topi e nuoti nel fango quando
piove, da dove non puoi sporgerti per
guardare fuori, dove devi restare sveglio
anche tre giorni, tu che non sei
d'acciaio e vorresti riposare ogni tanto,
tra i sacchi di sabbia, dietro ai sacchi
di sabbia e lontano dai superiori, con il
tanfo dei corpi dei morti che pendono dai
reticolati nella terra di nessuno, e in
mezzo a ogni sorta di immondizie. Su
queste esperienze di guerra vissuta, ha
detto Libardi, si innestano altre e nuove
esperienze percettive, come il cinema,
con i suoi salti dal buio alla luce. E i
rumori terrorizzanti, ipertecnologici,
che spesso prevalgono sulla percezione
visiva. Si innestano i primi sintomi di
male oscuro, la difficoltà del capire e
la conseguente rinuncia a comunicare,
l'esperienza della distanza tra la guerra
e la vita: la distanza tra il fronte, una
volta chiamato "la" fronte, e
il corpo della patria. Di tutto ciò gli
intellettuali hanno visioni distinte,
oscillanti tra il rarefatto e il fatale,
dal mitico al vitalistico,
all'introspettivo. L'animalità e la
religiosità sono come le forme a priori
dell'esperienza di guerra. Non importa
per cosa, ma come si combatte. Poi, su un
diverso livello di percezione e di
esperienza, si reagisce con i rituali, i
talismani, le leggende. Gli arcieri di
Mons, gli angeli impossibili che
compaiono in cielo e scendono tra i fanti
che li vedono davvero, come i cristiani
del Medioevo vedevano Santiago Matamoros
incalzare gli infedeli con il mantello al
vento, il cavallo al galoppo e la spada
sguainata. Gli inviati dei grandi
giornali che inventano le leggende. Le
voci popolari che prendono alla lettera
quelle invenzioni e le fanno proprie con
mille varianti. La propaganda che ricama
sugli stereotipi e i pregiudizi.
Zeppelin, sottomarini, battaglioni
fantasma. La morte è un prodotto di
massa che si riproduce in migliaia di
monumenti ai caduti. Ossa anonime, morti
esibite, azzeramento degli individui,
milioni di esperienze svanite per sempre.
E il mondo che riparte, dopo la
catastrofe, mentre tutti dicono, forti di
un'esperienza vissuta sulla pelle, sui
libri, sui giornali o nei racconti degli
altri, che mai nulla sarà più come
prima.
|
|