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 CULTURA
 


Ermanno Bencivenga

Filosofi sì, ma contro il lavoro
Bencivenga a Trento ha esposto la sua teoria libertaria
L'INCONTRO

di
Alessandro Dell'Aira

ERMANNO BENCIVENGA insegna filosofia della scienza a Bologna. E' stato direttore del Centro studi in Italia dell'università californiana di Irvine, dove tuttora ricopre una cattedra di filosofia. Ha collaborato negli anni scorsi con l'università di Trento, agevolando i contatti accademici e studenteschi con gli Stati Uniti. Grande firma del quotidiano La Stampa di Torino, autore del best-seller "I passi falsi della scienza" (Garzanti), guarda alla filosofia come a uno strumento di liberazione. Su invito del Rettorato dell'università e del Comune di Trento, ha incontrato l'altro giorno un pubblico numeroso e attento, esponendo la sua tesi come aveva già fatto al Festival di Mantova nel 2001 con Piero Dorfles e alcuni mesi fa.
La pratica divulgativa rende molto accessibile il pensiero di Bencivenga, il cui progetto intellettuale non trascura le forme della poesia e della prosa filosofica. I suoi campi di ricerca sono la logica, la storia della filosofia, la filosofia del linguaggio, tre momenti di un percorso individuale coerente. I suoi postulati sono scarni ed essenziali. Se gli scienziati umanamente sbagliano, sostiene Bencivenga, errano anche i filosofi che spesso negano all'uomo la prospettiva della liberazione. Chi si interroga all'infinito dà al dubbio il valore di limite permanente del pensiero. Il dubbio per il dubbio non ha forza creativa, preclude la felicità. Sbagliando si impara, il dubbio è un metodo, se diventa eredità finisce per impaludare la ragione. Da qualche tempo Bencivenga insiste sulla critica alla società del divertimento e sull'importanza di un manifesto per un mondo senza lavoro. Il lavoro di oggi è cultura dell'organizzazione spesso finalizzata alla produzione insostenibile, orientata al mercato dell'inutile, al dominio del tempo dei consumatori e al drenaggio di ogni risorsa "libera" e disponibile. In un mondo con questi valori, con queste regole, l'ora della liberazione si allontana. La filosofia può fare da argine contro questa tendenza: non ha segreti, è giocosa e provocatoria. Come la scienza, può anche fare utili passi falsi.
Cos'è la felicità, professore? Un traguardo sicuro, un diritto irrinnunciabile?
Il mio punto di vista è kantiano. Secondo Kant le scelte dell'uomo non devono essere motivate in prima battuta dalla felicità ma dal diritto a una vita più degna e più giusta, più razionale. Si può anche raggiungere la felicità, non in senso esilarante ma come tranquilla e serena accettazione della propria condizione di vita. La felicità non è mai un traguardo garantito, si fonda sul dialogo e sul confronto. E' possibile dialogare con chiunque, quali che siano i suoi paraventi, i suoi pregiudizi. Il dialogo costa, ma una volta dissipate le incomprensioni l'orizzonte comunicativo si allarga.
Su felicità e liberazione, che cosa le hanno insegnato gli Usa?
Vorrei dire due cose. Anzitutto, la ricerca della felicità è da intendere nello spirito della dichiarazione di indipendenza del 1776, e non nel senso corrente di oggi. Le parole di Jefferson erano espressione degli ideali e del pensiero formulato in quegli stessi anni da Kant. In secondo luogo, e parlo per me, gli anni americani sono stati una forma di liberazione, non perché ero in America ma perché mi trovavo in un altro ambiente di vita e di lavoro. Ciò vale anche per il percorso inverso, ad esempio la lunga permanenza di Gore Vidal in Italia. Vivere un'esperienza bilingue e biculturale ci aiuta a conoscere i limiti dell'una e dell'altra parte. I punti di vista hanno sempre dei limiti, dobbiamo sempre mettere in conto i punti ciechi della conoscenza.
Che cosa ha imparato negli Usa come filosofo?
Ammiro e apprezzo l'America come stato mentale, come idea della ragione che crede in un mondo libero e democratico. Questa America si scontra spesso con una realtà tutt'altro che liberatoria. E' questo il problema con cui dobbiamo fare i conti di continuo.
Europa e Stati Uniti vivono una certa conflittualità. Che ne pensa?
Credo che l'Europa stia seguendo il modello economico e politico americano troppo pedissequamente. L'America stessa ha bisogno di diversità. Prendiamo ad esempio la fuga dei nostri migliori cervelli: si trovano bene in America perché sono stati formati altrove. Il modello americano da solo non è in grado di generare tutto il talento di cui ha bisogno. L'Europa segua la sua strada.


 
 
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