LE LETTERE  
venerdì 26 febbraio 1999, S. Nestore  
   
Con Van Dyck in Italia,
paradiso dei fiamminghi
LUCI DI POSIZIONE

Alessandro Dell'Aira

Il giro d'Italia
di Van Dyck non è il Grand tour di un artista, è la tournée di una star. Inizia a Genova nel 1621: una città, un contratto, un ritratto dopo l'altro, Anton trafigge cuori che non infrange, immortala mercanti e signore di mercanti, aristocratici e banchieri, intellettuali e ragazzotti, santi storici e santi da lanciare, si inventa sacre conversazioni e combina nozze mistiche, non sempre ben pagato e quasi sempre contento, il denaro non è tutto. Da buon anversano è schiavo del denaro quanto basta, come artista fiammingo è sempre disposto a épater le bourgeois et aussi la noblesse senza ingannare né gli occhi né gli animi, è uomo di costumi eccentrici e pittore cattolico esibizionista ma rispettoso dei costumi di vita altrui e del genio del luogo, se così si puó dire. Passa per un rubensiano che ha rubato l'arte al maestro nella prima età della vita. Chi la pensa così non vuole sapere e fa fatica a credere che a istruirlo sia stato Hendrick Van Balen, decano della gilda di San Luca, che lo ha messo in grado a dieci anni di impugnare i pennelli senza sbrodolarsi, e di rappresentarsi a quindici nel modo stupendo che si ammira presso l'Akademie der bildenden Künste di Vienna. È quasi di maniera un suo ritratto coevo della Casa di Rubens di Anversa attribuito al presunto maestro defraudato: confrontando le tele non si nota che Pieter Paul ha ventidue anni di più. D'altra parte il ritratto è il genere di battaglia di Van Dyck e questo Rubens lo sapeva benissimo. I Van Dyck sono bene introdotti negli ambienti che contano. Frans, il padre, mercante di sete e di stoffe, presiede la confraternita del Santissimo Sacramento che ha sede nel duomo di Anversa. La madre Maria ha l'arte nel sangue e tesse arazzi di pregio, muore quando Antoon ha otto anni e gli lascia un grande vuoto dentro. Il capofamiglia ha i suoi problemi, tra un viaggio di lavoro e l'altro deve badare ai figli di primo e di secondo letto, oggi è a Parigi domani a Londra dopodomani a Colonia. Il piccolo si consola nella bottega di Hendrick, cresce e riflette, non ha altra vocazione che la pittura, trasfonde nelle figure i valori della famiglia, verifica sui testi sacri i soggetti che gli assegnano, copia i modelli, ispira gli incisori, prova e riprova varianti, mette mano ai bozzetti, medita sulle cose del mondo e rafforza la reputazione dei Van Dyck. A sedici anni è tecnicamente autonomo, apre uno studio e si avvicina a Rubens che lo ha puntato da tempo ma non vuole guastarsi i rapporti con Van Balen. La storia anversana di quegli anni è intessuta delle relazioni tra le famiglie e le botteghe dei maestri pittori. Pieter Paul si atteggia a tutore di Antoon, gli procura clienti e lo tiene occupato con gli studi dal vero per non iniziarlo ai segreti troppo presto. Lui è caparbio, detesta i preliminari e va direttamente al sodo e al supporto, i detrattori lo accusano di snobbare il disegno e leggono incapacità e preclusione nel suo attaccamento al colore corposo. Il patron lo tratta da apprendista, il ragazzo non è stupido e trae il suo tornaconto dal sodalizio, fa e riceve favori, tiene d'occhio il mercato e il giorno che Rubens si impegna con i gesuiti per un ciclo del Rosario Antoon Van Dyck figura nel contratto. È il suo debutto da professionista, quella menzione lo qualifica presso gli inglesi e gli apre la strada in Italia, dove i gesuiti sono impegnati nelle città a orientare la gente e consigliare i potenti, mentre nelle campagne evangelizzano chi ai loro occhi possiede più della fiera che dell'uomo civilizzato. A Genova c'è un loro famoso collegio e un gruppetto di anversani che si rende prezioso ogni volta che l'ambizione dei nobili e degli abbienti concide con gli interessi della città e della Chiesa locale. E non solo Genova, mezza Italia è l'Eldorado dei fiamminghi, basta passare le Alpi e avere i riflessi pronti, il resto viene da sé. Passare la Manica invece è complicato, ci vogliono il nome, le credenziali degli agenti e il permesso del re. Chi è bravo e ottiene un lasciapassare ha già la fortuna in tasca, però quel Van Dyck, uno dei più rinomati pittori della città, ricco di suo, ad Anversa si trova benissimo e a tutto aspira meno che a trasferirsi. Questo suo giocare al rialzo spiazza gli emissari del re d'Inghilterra, che insistono più del previsto per garantirselo. A spuntarla è il conte di Arundel, gentiluomo cattolico che mantiene le distanze anche con Giacomo primo, Rubens l'ammira e lo teme e lo chiama per gioco il quinto evangelista. Lord Arundel è anche un talent scout, come tutti gli intenditori di razza, e chiama a corte quanto di meglio vi sia sulla piazza in fatto di artisti figurativi. Antoon accetta la proposta e la prende come una liberazione: ha ventun anni, è da poco padre di una bambina e gli occorre un alibi decente per aggirare le trappole degli affetti stanziali. Al ritorno ad Anversa da lì a sette mesi, carico di ricchezze e di fama aggiunta, uno dei suoi primi pensieri è di fare il bis con un viaggio in Italia. Anche stavolta Rubens lo sostiene e gli trova un letto e un focolare a Genova presso i de Wael, mercanti d'arte, pittori e lontani parenti acquisiti di Antoon, niente di più normale fra gli artisti di Anversa. È banale ripeterlo ma a quei tempi l'Italia è una palestra ideale per chi viene a fare il verso a Giorgione o a Tiziano. Van Dyck ha deciso, vi resterà più che in Inghilterra. Sa di essere molto quotato, vuole dedicarsi ai privati e rifiuta gli stipendi. Parte a cavallo e tempo un mese e mezzo si presenta nella Dominante, si installa da Lucas e Cornelis de Wael, lascia passare un altro mese e mezzo e si imbarca per Civitavecchia. Da lì raggiunge Roma, Firenze, Bologna, Milano, Torino, Venezia, Mantova, divaga e spigola in varie direzioni, torna a Roma e ritrae il futuro papa Urbano ottavo prima che lo eleggano, poi su invito del viceré di Sicilia va a Palermo dove si dedica di preferenza ai soggetti sacri, assiste e partecipa al lancio della nuova patrona Rosalia, rischia la vita per la peste, pianta in asso tutti, riparte per Napoli aggirando la quarantena e dopo varie avventure riesce a riguadagnare Genova. Addio all'orribile 1624, Antoon tira il fiato, si dà una regolata e si ferma presso i de Wael fino al commiato eccetto un'escursione in Francia. È entrato in tante case e ha dipinto mille volti, di Tiziano ora sa tutto, ha superato se stesso, ha imparato tecniche nuove e ha messo insieme in sei anni un gigantesco retablo di ritratti e di schizzi. È l'Italia paradiso dei fiamminghi, illustrata da un anversano curioso piombato a ventidue anni in casa di amici con un cavallo tenuto al morso e un taccuino nel bagaglio, e ripartitone a ventotto con un'altra testa e una mano diversa.


Antoon Van Dyck,
Autoritratto.
1615.Vienna, Galerie der
bildenden Künste