Con Van Dyck in Italia,
paradiso dei fiamminghi
LUCI DI POSIZIONE
Alessandro Dell'Aira
Il giro d'Italia di Van Dyck non è il Grand tour
di un artista, è la tournée di una
star. Inizia a Genova nel 1621: una città, un
contratto, un ritratto dopo l'altro, Anton
trafigge cuori che non infrange, immortala
mercanti e signore di mercanti, aristocratici e
banchieri, intellettuali e ragazzotti, santi
storici e santi da lanciare, si inventa sacre
conversazioni e combina nozze mistiche, non
sempre ben pagato e quasi sempre contento, il
denaro non è tutto. Da buon anversano è schiavo
del denaro quanto basta, come artista fiammingo
è sempre disposto a épater le bourgeois et
aussi la noblesse senza ingannare né gli
occhi né gli animi, è uomo di costumi
eccentrici e pittore cattolico esibizionista ma
rispettoso dei costumi di vita altrui e del genio
del luogo, se così si puó dire. Passa per un
rubensiano che ha rubato l'arte al maestro nella
prima età della vita. Chi la pensa così non
vuole sapere e fa fatica a credere che a
istruirlo sia stato Hendrick Van Balen, decano
della gilda di San Luca, che lo ha messo in grado
a dieci anni di impugnare i pennelli senza
sbrodolarsi, e di rappresentarsi a quindici nel
modo stupendo che si ammira presso l'Akademie
der bildenden Künste di Vienna. È quasi di
maniera un suo ritratto coevo della Casa di
Rubens di Anversa attribuito al presunto maestro
defraudato: confrontando le tele non si nota che
Pieter Paul ha ventidue anni di più. D'altra
parte il ritratto è il genere di battaglia di
Van Dyck e questo Rubens lo sapeva benissimo. I
Van Dyck sono bene introdotti negli ambienti che
contano. Frans, il padre, mercante di sete e di
stoffe, presiede la confraternita del Santissimo
Sacramento che ha sede nel duomo di Anversa. La
madre Maria ha l'arte nel sangue e tesse arazzi
di pregio, muore quando Antoon ha otto anni e gli
lascia un grande vuoto dentro. Il capofamiglia ha
i suoi problemi, tra un viaggio di lavoro e l'altro
deve badare ai figli di primo e di secondo letto,
oggi è a Parigi domani a Londra dopodomani a
Colonia. Il piccolo si consola nella bottega di
Hendrick, cresce e riflette, non ha altra
vocazione che la pittura, trasfonde nelle figure
i valori della famiglia, verifica sui testi sacri
i soggetti che gli assegnano, copia i modelli,
ispira gli incisori, prova e riprova varianti,
mette mano ai bozzetti, medita sulle cose del
mondo e rafforza la reputazione dei Van Dyck. A
sedici anni è tecnicamente autonomo, apre uno
studio e si avvicina a Rubens che lo ha puntato
da tempo ma non vuole guastarsi i rapporti con
Van Balen. La storia anversana di quegli anni è
intessuta delle relazioni tra le famiglie e le
botteghe dei maestri pittori. Pieter Paul si
atteggia a tutore di Antoon, gli procura clienti
e lo tiene occupato con gli studi dal vero per
non iniziarlo ai segreti troppo presto. Lui è
caparbio, detesta i preliminari e va direttamente
al sodo e al supporto, i detrattori lo accusano
di snobbare il disegno e leggono incapacità e
preclusione nel suo attaccamento al colore
corposo. Il patron lo tratta da
apprendista, il ragazzo non è stupido e trae il
suo tornaconto dal sodalizio, fa e riceve favori,
tiene d'occhio il mercato e il giorno che Rubens
si impegna con i gesuiti per un ciclo del Rosario
Antoon Van Dyck figura nel contratto. È il suo
debutto da professionista, quella menzione lo
qualifica presso gli inglesi e gli apre la strada
in Italia, dove i gesuiti sono impegnati nelle
città a orientare la gente e consigliare i
potenti, mentre nelle campagne evangelizzano chi
ai loro occhi possiede più della fiera che dell'uomo
civilizzato. A Genova c'è un loro famoso
collegio e un gruppetto di anversani che si rende
prezioso ogni volta che l'ambizione dei nobili e
degli abbienti concide con gli interessi della
città e della Chiesa locale. E non solo Genova,
mezza Italia è l'Eldorado dei fiamminghi, basta
passare le Alpi e avere i riflessi pronti, il
resto viene da sé. Passare la Manica invece è
complicato, ci vogliono il nome, le credenziali
degli agenti e il permesso del re. Chi è bravo e
ottiene un lasciapassare ha già la fortuna in
tasca, però quel Van Dyck, uno dei più rinomati
pittori della città, ricco di suo, ad Anversa si
trova benissimo e a tutto aspira meno che a
trasferirsi. Questo suo giocare al rialzo spiazza
gli emissari del re d'Inghilterra, che insistono
più del previsto per garantirselo. A spuntarla
è il conte di Arundel, gentiluomo cattolico che
mantiene le distanze anche con Giacomo primo,
Rubens l'ammira e lo teme e lo chiama per gioco
il quinto evangelista. Lord Arundel è anche un talent
scout, come tutti gli intenditori di razza,
e chiama a corte quanto di meglio vi sia sulla
piazza in fatto di artisti figurativi. Antoon
accetta la proposta e la prende come una
liberazione: ha ventun anni, è da poco padre di
una bambina e gli occorre un alibi decente per
aggirare le trappole degli affetti stanziali. Al
ritorno ad Anversa da lì a sette mesi, carico di
ricchezze e di fama aggiunta, uno dei suoi primi
pensieri è di fare il bis con un viaggio in
Italia. Anche stavolta Rubens lo sostiene e gli
trova un letto e un focolare a Genova presso i de
Wael, mercanti d'arte, pittori e lontani parenti
acquisiti di Antoon, niente di più normale fra
gli artisti di Anversa. È banale ripeterlo ma a
quei tempi l'Italia è una palestra ideale per
chi viene a fare il verso a Giorgione o a Tiziano.
Van Dyck ha deciso, vi resterà più che in
Inghilterra. Sa di essere molto quotato, vuole
dedicarsi ai privati e rifiuta gli stipendi.
Parte a cavallo e tempo un mese e mezzo si
presenta nella Dominante, si installa da Lucas e
Cornelis de Wael, lascia passare un altro mese e
mezzo e si imbarca per Civitavecchia. Da lì
raggiunge Roma, Firenze, Bologna, Milano, Torino,
Venezia, Mantova, divaga e spigola in varie
direzioni, torna a Roma e ritrae il futuro papa
Urbano ottavo prima che lo eleggano, poi su
invito del viceré di Sicilia va a Palermo dove
si dedica di preferenza ai soggetti sacri,
assiste e partecipa al lancio della nuova patrona
Rosalia, rischia la vita per la peste, pianta in
asso tutti, riparte per Napoli aggirando la
quarantena e dopo varie avventure riesce a
riguadagnare Genova. Addio all'orribile 1624,
Antoon tira il fiato, si dà una regolata e si
ferma presso i de Wael fino al commiato eccetto
un'escursione in Francia. È entrato in tante
case e ha dipinto mille volti, di Tiziano ora sa
tutto, ha superato se stesso, ha imparato
tecniche nuove e ha messo insieme in sei anni un
gigantesco retablo di ritratti e di schizzi. È l'Italia
paradiso dei fiamminghi, illustrata da un
anversano curioso piombato a ventidue anni in
casa di amici con un cavallo tenuto al morso e un
taccuino nel bagaglio, e ripartitone a ventotto
con un'altra testa e una mano diversa.
|
Antoon Van Dyck,
Autoritratto.
1615.Vienna, Galerie der
bildenden Künste
|