CULTURA  
martedì 23 marzo 1999, S. Turibio  
   
Van Dyck in Italia.
Quella peste di Antoon, il fiammingo
Le vicende del pittore cui Anversa dedicherà la mostra dell'anno

Alessandro Dell'Aira


Se Genova diede a Van Dyck in Italia gli spunti migliori, Palermo non fu da meno, si dirà: era piena di genovesi, ed è vero, prendiamo Sofonisba Anguissola, la grande vecchia del manierismo ancora in forze, le ultime, e in grado di fare le pulci alla pittura altrui anche se ormai a un palmo dal naso non distingueva più un'alabarda da una cavolaia. Cremonese di nascita, ultranovantenne, genovese e siciliana d'adozione, morì di vecchiaia l'anno dopo, poteva permetterselo.
Tra i genovesi c'era anche Giannettino Doria, l'arcivescovo subentrato al viceré di Spagna Emanuele Filiberto di Savoia quando il meschino spirò, appestato e pazzo di devozione per le ossa della romita Rosalia. Era l'annus horribilis 1624, quelle ossa le aveva trovate venti giorni prima in una grotta del Montepellegrino un cacciatore, era sceso a Palermo festante ed era entrato nel Càssaro mentre due canonici invocavano la romita nella calca di una processione, e in punti così distanti tra loro da potersi escludere una risonanza tra la prima e la seconda invocazione. Il popolo trasalì per quella triplice prodigiosa occorrenza, la peste dilagava e il Sant'Uffizio vigilava sugli orologi da casa da chiesa e da tasca, sicché il Senato acclamò Rosalia per salvatrice dalla peste e la scelse per nuova avvocata della città declassando le antiche patrone Agata, Oliva, Ninfa e Cristina. La visita di Van Dyck all'Anguissola è del dodici luglio, la processione drammatica è del quindici, l'acclamazione della nuova patrona è del ventisette e la morte del viceré del tre d'agosto: Antoon assiste a questi eventi turbinosi e taglia la corda, forse anche stordito dall'accelerazione che la cronaca imprime alla corsa dei ceti sociali e degli ordini religiosi per l'aggiudicazione del santo patronato di Palermo. Raccoglie la sua roba, arrotola una tela abbozzata con la Madonna del Rosario e le cinque patrone, saluta gli ospiti e parte senza aver messo in posa sua eminenza di ritorno da Roma, è l'emergenza, adesso il Doria è anche luogotenente del viceregno, è uomo per tutte le emergenze e affronta pure la luna di Antoon. Il ragazzo è così da quando sua madre, la maga degli arazzi, è morta e con lei tutti gli arazzi, da uno stato d'animo all'altro sparisce, se l'era squagliata da Roma per molto meno, figurarsi ora che ha ragioni da vendere: primo, la peste non paga dazio e lui non vuole rimetterci le penne come il viceré, secondo, il fantasma della romita lo perseguita, Antoon l'ha dipinta tante di quelle volte che ha preso a sognarla e a sudare come il FIliberto che a vedersela davanti gli era cresciuto l'affanno. E dire che lui di patroni e di cause celesti se ne intendeva, era partigiano di fra' Benedetto il Moro, figlio di uno schiavo e nero come le bacche del sambuco, morto e sepolto da sette lustri vicino a Palermo nel convento di Santa Maria di Gesù. A farglielo scordare fu un quadro dei padri gesuiti che il primo d'agosto uscì sul Càssaro con un gran seguito, glielo portarono a Palazzo e lui "lo volse nella sua cammara", e se non era di Antoon il dipinto di chi poteva essere, forse era quello di tre palmi e mezzo per quattro con undici angioletti intorno alla nuvola di Rosalia che volava in paradiso. Il Filiberto se ne invaghì come l'Anguissola s'era incapricciata di Antoon piombatole in casa per chiederle come andava trattato il viso delle donne d'età, con che luce e con che colori, giusto a lei che non aveva più tanta luce negli occhi e nella testa. E come lei s'era ridotto il Filiberto, ancora florido e presentabile qualche giorno prima, il genio di Anversa lo aveva ritratto a Palazzo.
La peste non è guerra omerica, è flagello biblico che consuma la carne da uno stato d'animo all'altro. Su un foglio dello Sketchbook, il famoso taccuino italiano di Antoon, fitto di capolavori ricopiati, scenette di strada, appunti e bozzetti, c'è un nome sotto la firma del proprietario: Antonio Van Dyck, don Fabricio Valguernero dottore in Palermo, la passione e la scienza, due luoghi d'Europa e della vita nell'inferno di una città in pericolo. Se per Rubens il conte di Arundel è il quinto evangelista, in quei giorni tremendi Valguarnera e Van Dyck sono due beati curatori, l'uno dei corpi degli uomini e l'altro delle immagini dei santi. Troppi però, una ridondanza di cui si avvide Urbano ottavo, che l'ultimo giorno di luglio del 1627, qualche mese prima che Antoon lasciasse l'Italia, inviò una lettera augusta in latino pepato al Senato della felicissima città di Palermo per far sapere che la causa del frate era bloccata, e che dunque aspettassero. La Madonna del Rosario aspettava anche lei nella tela arrotolata in casa de Wael, aspettava con tutti i suoi santi che da Palermo saldassero il conto, e chissà che quella nota in sospeso non fosse una scusa per tergiversare sull'altro fronte, forse a Palermo i congregati del Rosario e a Genova maestro Van Dyck aspettavano Urbano ottavo che non canonizzava la romita, cosa che avvenne nel 1630.
Quando Van Dyck sbarca a Palermo, Benedetto il Moro e Rosalia pronipote di Carlomagno sono entrambi in corsa come patroni, lui è venerato dai frati nella sagrestia del convento, le ossa di lei non sono ancora state trovate ma la scoperta è nell'aria e il palio è di fatto aggiudicato. La quadreria di Van Dyck e molte carte sparse e riordinate confermano le impressioni di Brydone e di altri viaggiatori del Sette e dell'Ottocento: una vaga storia. E ai quadri e alle carte si coniughi una commedia del Siglo de Oro. Sì, perché se Van Dyck viene a Palermo a rappresentare la leggenda che il gesuita Ottavio Caetani ha rinvenuto in uno scartafaccio, Lope de Vega aspirante terziario francescano s'è già dato da fare a Madrid intorno al 1610 con la Commedia famosa del santo nero Rosambuco, liberamente ispirata alla vita del frate. Benedetto, destinato a trionfare in America e non in Sicilia, secondo una carta dell'Archivio di Simancas era ancora nel cuore del viceré nel 1622, e non doveva esserne scivolato fuori del tutto il primo d'agosto del 1624, pur essendo quasi svanito dalla memoria degli anziani e del tutto ignorato dai giovani. La patrona revenant di Van Dyck era bianca, bionda, normanna, stirpe di re, solitaria ad oltranza, taumaturga virtuale, l'esatto contrario del Moro, e spopolò conquistandosi tutti. Divenne la santa più amata, neanche avessero fatto un'indagine di mercato: merito anche del suo curatore d'immagine, quella peste di Antoon il fiammingo.



Antoon Van Dyck. Autoritratto del 1635.