Van Dyck in Italia.
Quella peste di Antoon, il fiammingo
Le vicende del pittore cui
Anversa dedicherà la mostra dell'anno
Alessandro Dell'Aira
Se Genova diede a Van Dyck in Italia gli spunti
migliori, Palermo non fu da meno, si dirà: era
piena di genovesi, ed è vero, prendiamo
Sofonisba Anguissola, la grande vecchia del
manierismo ancora in forze, le ultime, e in grado
di fare le pulci alla pittura altrui anche se
ormai a un palmo dal naso non distingueva più un'alabarda
da una cavolaia. Cremonese di nascita,
ultranovantenne, genovese e siciliana d'adozione,
morì di vecchiaia l'anno dopo, poteva
permetterselo.
Tra i genovesi c'era anche Giannettino Doria, l'arcivescovo
subentrato al viceré di Spagna Emanuele
Filiberto di Savoia quando il meschino spirò,
appestato e pazzo di devozione per le ossa della
romita Rosalia. Era l'annus horribilis 1624,
quelle ossa le aveva trovate venti giorni prima
in una grotta del Montepellegrino un cacciatore,
era sceso a Palermo festante ed era entrato nel
Càssaro mentre due canonici invocavano la romita
nella calca di una processione, e in punti così
distanti tra loro da potersi escludere una
risonanza tra la prima e la seconda invocazione.
Il popolo trasalì per quella triplice prodigiosa
occorrenza, la peste dilagava e il Sant'Uffizio
vigilava sugli orologi da casa da chiesa e da
tasca, sicché il Senato acclamò Rosalia per
salvatrice dalla peste e la scelse per nuova
avvocata della città declassando le antiche
patrone Agata, Oliva, Ninfa e Cristina. La visita
di Van Dyck all'Anguissola è del dodici luglio,
la processione drammatica è del quindici, l'acclamazione
della nuova patrona è del ventisette e la morte
del viceré del tre d'agosto: Antoon assiste a
questi eventi turbinosi e taglia la corda, forse
anche stordito dall'accelerazione che la cronaca
imprime alla corsa dei ceti sociali e degli
ordini religiosi per l'aggiudicazione del santo
patronato di Palermo. Raccoglie la sua roba,
arrotola una tela abbozzata con la Madonna del
Rosario e le cinque patrone, saluta gli ospiti e
parte senza aver messo in posa sua eminenza di
ritorno da Roma, è l'emergenza, adesso il Doria
è anche luogotenente del viceregno, è uomo per
tutte le emergenze e affronta pure la luna di
Antoon. Il ragazzo è così da quando sua madre,
la maga degli arazzi, è morta e con lei tutti
gli arazzi, da uno stato d'animo all'altro
sparisce, se l'era squagliata da Roma per molto
meno, figurarsi ora che ha ragioni da vendere:
primo, la peste non paga dazio e lui non vuole
rimetterci le penne come il viceré, secondo, il
fantasma della romita lo perseguita, Antoon l'ha
dipinta tante di quelle volte che ha preso a
sognarla e a sudare come il FIliberto che a
vedersela davanti gli era cresciuto l'affanno. E
dire che lui di patroni e di cause celesti se ne
intendeva, era partigiano di fra' Benedetto il
Moro, figlio di uno schiavo e nero come le bacche
del sambuco, morto e sepolto da sette lustri
vicino a Palermo nel convento di Santa Maria di
Gesù. A farglielo scordare fu un quadro dei
padri gesuiti che il primo d'agosto uscì sul
Càssaro con un gran seguito, glielo portarono a
Palazzo e lui "lo volse nella sua cammara",
e se non era di Antoon il dipinto di chi poteva
essere, forse era quello di tre palmi e mezzo per
quattro con undici angioletti intorno alla nuvola
di Rosalia che volava in paradiso. Il Filiberto
se ne invaghì come l'Anguissola s'era
incapricciata di Antoon piombatole in casa per
chiederle come andava trattato il viso delle
donne d'età, con che luce e con che colori,
giusto a lei che non aveva più tanta luce negli
occhi e nella testa. E come lei s'era ridotto il
Filiberto, ancora florido e presentabile qualche
giorno prima, il genio di Anversa lo aveva
ritratto a Palazzo.
La peste non è guerra omerica, è flagello
biblico che consuma la carne da uno stato d'animo
all'altro. Su un foglio dello Sketchbook, il
famoso taccuino italiano di Antoon, fitto di
capolavori ricopiati, scenette di strada, appunti
e bozzetti, c'è un nome sotto la firma del
proprietario: Antonio Van Dyck, don Fabricio
Valguernero dottore in Palermo, la passione e la
scienza, due luoghi d'Europa e della vita nell'inferno
di una città in pericolo. Se per Rubens il conte
di Arundel è il quinto evangelista, in quei
giorni tremendi Valguarnera e Van Dyck sono due
beati curatori, l'uno dei corpi degli uomini e l'altro
delle immagini dei santi. Troppi però, una
ridondanza di cui si avvide Urbano ottavo, che l'ultimo
giorno di luglio del 1627, qualche mese prima che
Antoon lasciasse l'Italia, inviò una lettera
augusta in latino pepato al Senato della
felicissima città di Palermo per far sapere che
la causa del frate era bloccata, e che dunque
aspettassero. La Madonna del Rosario aspettava
anche lei nella tela arrotolata in casa de Wael,
aspettava con tutti i suoi santi che da Palermo
saldassero il conto, e chissà che quella nota in
sospeso non fosse una scusa per tergiversare sull'altro
fronte, forse a Palermo i congregati del Rosario
e a Genova maestro Van Dyck aspettavano Urbano
ottavo che non canonizzava la romita, cosa che
avvenne nel 1630.
Quando Van Dyck sbarca a Palermo, Benedetto il
Moro e Rosalia pronipote di Carlomagno sono
entrambi in corsa come patroni, lui è venerato
dai frati nella sagrestia del convento, le ossa
di lei non sono ancora state trovate ma la
scoperta è nell'aria e il palio è di fatto
aggiudicato. La quadreria di Van Dyck e molte
carte sparse e riordinate confermano le
impressioni di Brydone e di altri viaggiatori del
Sette e dell'Ottocento: una vaga storia. E ai
quadri e alle carte si coniughi una commedia del
Siglo de Oro. Sì, perché se Van Dyck viene a
Palermo a rappresentare la leggenda che il
gesuita Ottavio Caetani ha rinvenuto in uno
scartafaccio, Lope de Vega aspirante terziario
francescano s'è già dato da fare a Madrid
intorno al 1610 con la Commedia famosa del santo
nero Rosambuco, liberamente ispirata alla vita
del frate. Benedetto, destinato a trionfare in
America e non in Sicilia, secondo una carta dell'Archivio
di Simancas era ancora nel cuore del viceré nel
1622, e non doveva esserne scivolato fuori del
tutto il primo d'agosto del 1624, pur essendo
quasi svanito dalla memoria degli anziani e del
tutto ignorato dai giovani. La patrona revenant
di Van Dyck era bianca, bionda, normanna, stirpe
di re, solitaria ad oltranza, taumaturga virtuale,
l'esatto contrario del Moro, e spopolò
conquistandosi tutti. Divenne la santa più amata,
neanche avessero fatto un'indagine di mercato:
merito anche del suo curatore d'immagine, quella
peste di Antoon il fiammingo.
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Antoon Van
Dyck. Autoritratto del 1635.
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