La
vita non è tutta
letteratura
Un arruffato José Saramago
dice la sua
tra premi, politica
e cani
INCONTRI A Torino è arrivato il
premio Nobel
di Alessandro Dell'Aira
Sorprendente. Piacevolmente sorprendente. Con
queste parole José de Sousa Saramago, in
poltrona, un po' arruffato, si interessa al
progetto Trentino - Portogallo, inedito, dice,
rispetto ai soliti scambi Roma - Lisbona. E'
lusingato ma non per sé: per il suo paese, per
la sua lingua. E prima di congedarsi, più tardi,
già in piedi, ci stringe la mano e si lascia
scappare una mezza promessa: a settembre forse
verrò da voi. L'altra mezza, con un sorriso
dolce, ce l'ha fatta sua moglie Pilar, che è
spagnola, con gli ultimi onori di casa. La
affiancavano gli ospiti torinesi Giancarlo
Depretis e Pablo Luis Ávila, cortesissimi, che
con Cesare Segre e Gian Luigi Beccaria hanno
appena dedicato all'amico più che celebre «La
statua e la pietra», portando a maturazione una
sua lezione accademica dell'anno scorso.
A Torino e all'Einaudi Saramago è di casa. In
salotto e dappertutto un'orgia di quadri e piatti
di ceramica alle pareti, e di statuette
portoghesi in una nicchia del corridoio foderata
di azulejos, impettite in processione su
tre ripiani di vetro. Poco più in là, pestelli
di rame e acquasantiere, alcuni splendidi mobili
antichi, piemontesi, libri, naturalmente, e lui,
don José, statuario, essenziale, incline al
sorriso solo a tratti, affabile con tutti com'è
suo costume.
Si è illuminato in viso la prima volta quando
uno di noi gli ha chiesto di fare un bilancio
della sua opera di premio Nobel, il primo
concesso a un autore di lingua portoghese. «Non
ne ho ancora avuto il tempo», risponde. «E poi,
il libro definitivo non esiste», aggiunge.
Scrivere è la sua passione appagata, si capisce.
Due pagine al giorno, sempre, a pensarci fanno
tre bei volumi in un anno. Scrive anche quando
pensa, don José, dentro le rughe della fronte,
quando socchiude i suoi occhi di falco miope sono
le virgole, e quando li spalanca sono le
maiuscole, lui ama metterle dopo le virgole.
Da dietro le lenti ci studia e ci orienta, senza
parere, come fa un bravo professore di filosofia
con un gruppo di alunni venuti a ripetizione
privata in salotto una settimana prima dell'esame.
Il viaggio? E' del corpo e della mente, è una
specialità degli uomini, gli animali non
viaggiano, si spostano, migrano. I nostri nomi?
Sono sempre meno importanti, non contano quasi
più niente, ci sono i numeri delle carte di
credito. La letteratura? Non è tutto nella vita.
Le decisioni? Sono loro a prenderci, non le
prendiamo noi. Dio? Lasciamolo in pace, se esiste.
E mentre parla di Dio, io penso che Dio dev'essere
una decisione per don José de Sousa Saramago,
statua di carne e pietra del Ribatejo, se è vero
che su uno scaffale del suo studio di Lanzarote c'è
una fotografia con una scritta che dice: «Dieu
te cherche». Non ce lo ha detto lui, l'ho
trovato scritto in una vecchia intervista. Dio ti
cerca. Invece lui, ci racconta, a Lisbona una
volta è stato cercato e avvicinato da due
signore di una qualche setta, che gli hanno
chiesto: il signore è interessato a conoscere il
progetto di Dio? Ci fa capire, don José, che a
giudicare da quello che constata ogni giorno, lui
al progetto di Dio preferisce non pensarci.
I migliori scrittori e poeti italiani? Calvino,
Sciascia, Ungaretti, Montale e il «giovane» Del
Giudice. E subito ricorda la sua telefonata
scherzosa a Fo di quando diedero il Nobel a Dario,
e l'incontro casuale e cordiale con Dario alla
fiera del libro di Francoforte, quando hanno dato
il Nobel a lui. Due Nobel della letteratura che a
momenti si urtano l'uno con l'altro senza volere,
non era mai successo. I casi della vita, che non
è tutta letteratura.
Don José è orgoglioso del suo Nobel, e anche
del Camões ricevuto quattro anni fa. Il Camões
è il premio letterario assegnato ogni anno dai
governi di Lisbona e di Brasilia al migliore
scrittore di lingua portoghese. E' stato anche la
nemesi dello sgarbo che un sottosegretario alla
Cultura gli fece nel 1992, escludendolo dalla
rosa del Premio Letterario Europeo a causa del
«Vangelo secondo Gesù Cristo», che il
sottosegretario, ma non soltanto lui nel governo,
giudicò inadatto a rappresentare il Portogallo
in Europa.
Fu allora che Saramago decise di fare contenta
Pilar, e con armi e bagagli si trasferì con lei
alle Canarie, nell'isola di Lanzarote che ora è
la loro base. Pilar è andalusa di Siviglia,
José di Azinhaga, profondo Ribatejo. Una
spagnola e un portoghese molto affiatati,
rispettosi l'uno dell'altra. Innamorati l'uno
dell'altra ed entrambi innamorati di Lanzarote.
Delle isole, specie se piccole e deserte, Pilar e
José devono sentire il fascino: lui ci ha
parlato di Robinson Crusoe e del suo rapporto con
l'isola come esempio di libero arbitrio
condizionato; alla scoperta delle isole
conosciute ha dedicato un libretto, tipico
esempio di prosa artistica e didascalica,
simbolica e lievemente ironica, saggio semiserio
sulla sua visione del mondo e delle isole.
La realtà ci sfugge e lui con parabole cariche
di immaginazione, compassione e ironia ce la
rende comprensibile. E' un giudizio degli
Accademici di Stoccolma. Progetti? Punti di
arrivo? Solo il futuro può dirlo, e ride a denti
stretti don José, che tante volte nella vita ha
ricominciato daccapo, prima un impiego pubblico,
poi traduttore editoriale, poi ancora giornalista,
quindi scrittore in proprio, e sempre ancorato,
anzi prudentemente zavorrato e trattenuto a terra
dai suoi principi etici di base.
Oggi si gode il Nobel e lavora. Amarsi gli uni
con gli altri? Un momento, anzitutto
rispettiamoci. Siamo una specie schizofrenica, il
mondo ha bisogno dei nostri no. No, a che cosa?
All'ignoranza, alla miseria, alla globalizzazione
come Nuovo Impero, ai grandi progetti pensati a
casa, da enunciare in poltrona e da applicare
lontano da casa, dove noi non siamo. No alla
guerra e alla violenza, nel Chiapas o nei Balcani.
La Nato? Ha portato nel Kosovo una guerra che non
poteva fare, ma Milosevic, anche lui è
responsabile, da dieci anni si rifiuta di
concedere al Kosovo l'autonomia.
E' un uomo sempre in viaggio don José, con il
corpo e con la mente. I suoi settantasette anni
non li dimostra, è nato in campagna nel Ribatejo
un mese dopo la marcia su Roma degli italiani,
nel novembre del 1922, e per sua ventura non
possedette libri fino a diciott'anni, cioè
grosso modo fino alla nostra entrata in guerra.
Con una vita così se fosse nato in Italia oggi
sarebbe uno scampato. A parte gli inediti, che
lui solo sa quando tirerà fuori dai cassetti, il
primo romanzo lo ha pubblicato nel 1977,
«Manuale di pittura e calligrafia», la sua
storia. Cinque anni dopo, il primo successo,
«Memoriale del convento», in cui, ancora una
volta, concilia più livelli narrativi. Poi il
tributo al mostro sacro Fernando Pessoa, con «L'anno
della morte di Ricardo Reis», fissata al 1936, l'anno
di «Conversazione in Sicilia» di Vittorini: una
maschera letteraria che sopravvive al suo
inventore quanto basta per farsi accompagnare all'altro
mondo da lui.
Quindi «La zattera di pietra», la penisola
Iberica alla deriva con i suoi problemi e i suoi
teatrini della politica. Nel 1989, quando cade il
muro di Berlino, la «Storia dell'assedio di
Lisbona», ma solo una coincidenza: un romanzo su
un romanzo, che solo un traduttore e revisore
innamorato di una collega poteva concepire e
architettare come metafora della libertà di
dissentire dai testi e dai contesti, e di
reinventarli.
Nel 1991 il «Vangelo secondo Gesù Cristo», uno
scandalo, la pietra che frantuma la statua e
viene fuori come un magma. E finalmente il
«Saggio sulla cecità» e «Tutti i nomi», in
cui il pessimismo di Saramago si accentua.
Ma lui non è solo i romanzi. Ci sono i diari di
Lanzarote, le poesie, il teatro, i saggi, i
viaggi. Del corpo, della mente e della ragione.
Con il viaggiare della mente don José de Sousa
Saramago va dietro alla ragione, te la cerca
negli occhi e dovunque fermi lo sguardo.
Anche per caso, ad esempio sulla collezione di
acquasantiere degli ospiti, non sia mai che gli
venga in mente il titolo di un romanzo, lui i
romanzi li ha cominciati tutti dal titolo. Giorno
per giorno, di giorno in giorno, due pagine al
giorno, un piccolo viaggio al giorno. Il suo cane
Camões lo sta aspettando a Lanzarote, lo aspetta
là da quando al padrone hanno dato il premio
Camões, gli animali non viaggiano, aspettano.
Anche gli uomini, anche i Nobel aspettano quando
non viaggiano.
Cosa? Solo il futuro può dirlo. Cosa siamo
venuti a fare a Torino da lui? Un viaggio, è
chiaro, per le domande bastano i fax. Arrivederci
don José, arrivederci Pilar, vi aspettiamo a
Trento, a settembre. E se non è di troppo
disturbo, portatevi dietro Camões.
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Qualche anno fa: José Saramago, a Lisbona
Oggi: in casa di amici, a Torino
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