Ecco Consolo
tra la memoria e la distanza
Parola, musica, silenzio: lo
scrittore siciliano in una intervista-lampo svela
come i segni fitti del vuoto siano tra noi
Alessandro Dell'Aira
La parola, la musica, il silenzio. Tre tappe dell'avventura
di un uomo lucido e spaesato, la cadenzata
sublimazione del suo sentire. Vincenzo Consolo è
uno del sud, di Sant'Agata Militello, nel
messinese, venuto al mondo con i telefoni bianchi
e dunque immune dall'ansietà produttiva e
comunicativa del tecnologismo avanzato. "La
ferita dell'aprile", a metà fra lirica e
prosa, romanzo e racconto, è il suo esordio del
1963, in epoca di rifondazione del linguaggio
narrativo dopo la sbornia neorealista. Negli anni
in cui Pasolini va interrogandosi sull'italiano
come improbabile lingua nazionale, Consolo, nel
mezzo del cammino della vita e in una fase della
storia d'Italia in cui la gente tra le Alpi e le
Pelagie si rimescola, affronta pazientemente la
strada percorsa da Vittorini quarant'anni prima.
Moltissimi barattano le terre dell'ulivo con
quelle della vite, attratti dal lavoro e dal
benessere, i più per necessità, alcuni per
insofferenza, a volte decisi ad affrontare un'ibernazione
pur di tornare a casa rinvigoriti, in altri casi
con l'idea di trapiantarsi e attecchire al nord.
Si assestano, nel frattempo, e si diffondono i
modelli culturali e linguistici della società
industriale, e su altra scala e su altri livelli
prende corpo una miriade di esperienze creative,
fiorite su quel rimescolamento. Vincenzo, come
tanti altri intellettuali migrati, vive gli anni
settanta a Milano e si appresta all'abbandono
definitivo della piccola patria, in quel regime
di distanza geografica e psicologica che Carlo
Ginzburg, in "Occhiacci di legno", ha
di recente valorizzato come una risorsa cognitiva
privilegiata.
Lo scrittore
annuncia: «Sto lavorando a un
libro di saggi di tipo storico-letterario,
sociale-letterario, ad esempio
sul mondo delle zolfare in
Sicilia e sulla letteratura che
è nata da questo contesto. A
questi si aggiungeranno saggi
prettamente letterari su Verga,
Pirandello, Sciascia e tanti altri». |
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IL SORRISO. Passa un'altra manciata d'anni e
questa volta Consolo s'impone con "Il
sorriso dell'ignoto marinaio", un romanzo
storico-allegorico su uno scampolo di Sicilia
risorgimentale. Molti stranieri lo ritengono il
suo capolavoro. Siamo nel 1976 e di anni ne
passano altri venti, durante i quali lo scrittore
affina la sua vocazione ora di teorico della
lingua - "Retablo" -, ora di analista
della metamorfosi della società italiana -
"L'olivo e l'olivastro" -, e dedica
molte energie alla tutela dei propri ritmi dall'invadenza
dei romanzi-panettone e dalla voracità dei
lettori-struzzo. Teorizza il silenzio, e nel
frattempo parla chiaro e forte, moderatamente
anarchico, mentre altri nell'ambiente si
accapigliano sul cliché di intellettuale-pompiere
da preferire o no all'intellettuale-piffero del
cambiamento, della ribellione, del revisionismo.
Consolo torna spesso nella sua terra. Non è uno
che ha presidiato i luoghi con la presenza fisica,
come hanno fatto Sciascia a Racalmuto e Bufalino
a Comiso. Nessuno gliene ha mai fatto una colpa,
di cosa poi, e lui stesso per primo non si fa
sedurre dal meridionalismo integrale. Il suo
ruolo di visitatore e interprete dell'Italia che
cambia sotto una coltre di indifferenza esige la
scelta dello spaesamento come forma critica e
stilistica persistente. Quando Consolo parla del
mondo attraverso Milano e la Sicilia, è spietato.
Il cielo è fosco, non c'è soluzione, o forse
una c'è, ed è la mano pesante e biblica di Dio.
Il suo primo riferimento filosofico è un
Empedocle malinconico e ribelle, letto anche
attraverso la lente di Hölderlin.
Nel suo primo romanzo di successo lo scrittore s'innamora
di un dipinto di Antonello da Messina, il "Ritratto
d'ignoto" del Museo Mandralisca di Cefalù,
un sapido conglomerato di manufatti, dalle mazze
preistoriche al pianoforte a coda, tributo vano e
cosciente di un barone collezionista all'assemblaggio
del caos del mondo. Oggi la casa-regno del
Mandralisca ha assunto l'aria del museo-ospedale,
asettico, iperclassificato, afasico, che i
turisti balneari esauriscono in cinque minuti fra
un cannolo alla ricotta e una granita di limone.
Un altro dipinto, questa volta di Raffaello, è
lo spunto indiretto per il terzo romanzo miliare
di Consolo, "Lo Spasimo di Palermo" (1998).
Quest'ultimo sta a "Nottetempo, casa per
casa" (1992) - ambientato anch'esso a
Cefalù ma ai tempi di Crowley il satanico - e al
"Sorriso dell'ignoto marinaio" come il
silenzio sta alla musica e alla parola.
GEOMETRIA. C'è dunque una geometria, una
progettualità visibile nella produzione degli
ultimi vent'anni, filtrata dalla memoria
personale, linguistica e storica. Forse si tratta
della parabola tipica che l'intellettuale
percorre nel suo rapporto con il mondo, in ogni
tempo e in ogni luogo, tuttavia, nel caso di
Consolo e del suo tempo che è il nostro,
accompagnata e gravata da uno scenario di
sofferenza inaudita.
"Lo Spasimo di Palermo" prende il nome
da una chiesa in rovina, già lazzaretto e
magazzino comunale, oggi simbolo della rinascita
della città che ne ha fatto il teatro rinnovato
delle manifestazioni e degli spettacoli urbani.
Ai tempi d'oro ospitava una tela che Raffaello,
secondo il Vasari, aveva dipinto espressamente
per la chiesa e aveva chiamato "Sgomento
della Vergine e Spasimo del mondo". Poi
quella tela finì alla corte di Filippo II, nella
migliore tradizione degli omaggi-rapina che
affluiscono dalle province al centro dell'impero.
Il nome "Spasimo", con la sua tragica
musicalità e le sue correlazioni, nel romanzo di
Consolo produce quasi una contrattura della
coscienza, un annullamento della parola
pronunciata, nello sgomento per la violenza di
mafia che annichilisce uno dopo l'altro due
pilastri della società civile: i due giudici
realmente esistiti e soppressi che nell'immaginario
del protagonista, tornato in Sicilia, si
sovrappongono al fantasma di un vendicatore di
celluloide, Judex, una sorta di Zorro che nell'infanzia
agitata dell'autore non riusciva mai a liquidare
i cattivi perché sempre interrotto dall'arrivo
dei bombardieri. Un cinema parrocchiale da cui
sfollare, non "Cinema Paradiso" di
censurate delizie ma fabbrica di incubi futuri.
A
sinistra: Consolo e Sciascia. A destra:
«Di qua dal faro», immagine in
sovraccoperta. |
DUE DOMANDE. Letteratura
meridionalista o meridione in letteratura? Il
lettore può anche preferire Vigata allo Spasimo,
si dirà, e il commissario Montalbano di
Camilleri allo scrittore Gioacchino Martinez,
alter ego di Consolo. E in quanto spettatore, ha
il diritto di non farsi coinvolgere negli spasimi
del mondo e di consumare le storie seriali del
sergente Garcia, sempre beffato dal mantello di
un angelo-giudice sommario che svanisce prima di
uno spot e alla fine trionfa con un segno. O no?
La questione ne implica un'altra, pendente o
sospesa, e cioè: qual è il nesso prevalente che
oggi lega il lettore, la letteratura, l'autore e
il libro come oggetto d'interesse intellettuale e
di mercato culturale? Due questioni eterne e
banali. Le poniamo a Vincenzo Consolo. Che così
risponde: « Nella mia tragedia "Catarsi",
che rappresenta il suicidio di un Empedocle
contemporaneo, così dice il protagonista del
racconto che fa al pubblico l'antagonista,
Pausania. "Che menzogna, che recita, che
insopportabile linguaggio! E' proprio il degno
figlio di quest'orrendo tempo, di questo
abominevole contesto, di questo falso teatro
compromesso, di quest'era soddisfatta, di questa
società compatta, priva di tradimento, d'eresia,
priva di poesia. Figlio di questo mondo degli
avvisi, del messaggio tondo, dei segni fitti del
vuoto... Dietro il velo grasso delle sue parole
di melassa, io potrei scoprirvi l'oscena
ricchezza della mia città, la sua violenza, la
sua volgarità, gli intrighi, gli abusi, i
misfatti, le stragi d'innocenza, d'onore, di
memoria, la morte quotidiana, imbellettata come
le parole di questo misero ragazzo, di questo
triste opportunista..." Non so se si è
capita la metafora. La realtà insomma oggi è
questa: si è rotto il nesso (analizzarne le
cause tocca ad altri) tra il testo letterario e
il contesto situazionale. Voglio dire che oggi la
cavea del teatro è vuota e lo scrittore non
riesce più a stabilire un rapporto coi lettori.
Altrove intanto si sono apparecchiati altri
teatri, immense platee mediatiche in cui falsi
scrittori, furbi imbonitori, divertono e
consolano. Non siamo più lì, certo, nello
spazio letterario, ma in quello mercantile, della
produzione e del consumo della merce più
deteriore, se non immorale. Allo scrittore non
restano dunque che due soluzioni: l'afasia (il
silenzio dello scrittore Gioacchino Martinez de
"Lo Spasimo di Palermo") o lo scrivere
in forma poematica, spostare la prosa della
narrazione verso la forma poetica. I lettori
allora certo saranno pochi, ma veri».
Esce in questi giorni il nuovo libro di Vincenzo
Consolo: si intitola «Di qua dal faro»,
Mondadori, 29.000 lire. Intanto lo scrittore
annuncia: «Sto lavorando a un libro di saggi di
tipo storico-letterario, sociale-letterario, ad
esempio sul mondo delle zolfare in Sicilia e
sulla letteratura che è nata da questo contesto.
A questi si aggiungeranno saggi prettamente
letterari su Verga, Pirandello, Sciascia e tanti
altri».
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