CULTURA  
sabato 23 ottobre 1999, S. Giovanni da Capestrano  
   
Ecco Consolo
tra la memoria e la distanza
Parola, musica, silenzio: lo scrittore siciliano in una intervista-lampo svela come i segni fitti del vuoto siano tra noi

Alessandro Dell'Aira

La parola, la musica, il silenzio. Tre tappe dell'avventura di un uomo lucido e spaesato, la cadenzata sublimazione del suo sentire. Vincenzo Consolo è uno del sud, di Sant'Agata Militello, nel messinese, venuto al mondo con i telefoni bianchi e dunque immune dall'ansietà produttiva e comunicativa del tecnologismo avanzato. "La ferita dell'aprile", a metà fra lirica e prosa, romanzo e racconto, è il suo esordio del 1963, in epoca di rifondazione del linguaggio narrativo dopo la sbornia neorealista. Negli anni in cui Pasolini va interrogandosi sull'italiano come improbabile lingua nazionale, Consolo, nel mezzo del cammino della vita e in una fase della storia d'Italia in cui la gente tra le Alpi e le Pelagie si rimescola, affronta pazientemente la strada percorsa da Vittorini quarant'anni prima. Moltissimi barattano le terre dell'ulivo con quelle della vite, attratti dal lavoro e dal benessere, i più per necessità, alcuni per insofferenza, a volte decisi ad affrontare un'ibernazione pur di tornare a casa rinvigoriti, in altri casi con l'idea di trapiantarsi e attecchire al nord. Si assestano, nel frattempo, e si diffondono i modelli culturali e linguistici della società industriale, e su altra scala e su altri livelli prende corpo una miriade di esperienze creative, fiorite su quel rimescolamento. Vincenzo, come tanti altri intellettuali migrati, vive gli anni settanta a Milano e si appresta all'abbandono definitivo della piccola patria, in quel regime di distanza geografica e psicologica che Carlo Ginzburg, in "Occhiacci di legno", ha di recente valorizzato come una risorsa cognitiva privilegiata.


Lo scrittore annuncia: «Sto lavorando a un libro di saggi di tipo storico-letterario, sociale-letterario, ad esempio sul mondo delle zolfare in Sicilia e sulla letteratura che è nata da questo contesto. A questi si aggiungeranno saggi prettamente letterari su Verga, Pirandello, Sciascia e tanti altri».


IL SORRISO. Passa un'altra manciata d'anni e questa volta Consolo s'impone con "Il sorriso dell'ignoto marinaio", un romanzo storico-allegorico su uno scampolo di Sicilia risorgimentale. Molti stranieri lo ritengono il suo capolavoro. Siamo nel 1976 e di anni ne passano altri venti, durante i quali lo scrittore affina la sua vocazione ora di teorico della lingua - "Retablo" -, ora di analista della metamorfosi della società italiana - "L'olivo e l'olivastro" -, e dedica molte energie alla tutela dei propri ritmi dall'invadenza dei romanzi-panettone e dalla voracità dei lettori-struzzo. Teorizza il silenzio, e nel frattempo parla chiaro e forte, moderatamente anarchico, mentre altri nell'ambiente si accapigliano sul cliché di intellettuale-pompiere da preferire o no all'intellettuale-piffero del cambiamento, della ribellione, del revisionismo. Consolo torna spesso nella sua terra. Non è uno che ha presidiato i luoghi con la presenza fisica, come hanno fatto Sciascia a Racalmuto e Bufalino a Comiso. Nessuno gliene ha mai fatto una colpa, di cosa poi, e lui stesso per primo non si fa sedurre dal meridionalismo integrale. Il suo ruolo di visitatore e interprete dell'Italia che cambia sotto una coltre di indifferenza esige la scelta dello spaesamento come forma critica e stilistica persistente. Quando Consolo parla del mondo attraverso Milano e la Sicilia, è spietato. Il cielo è fosco, non c'è soluzione, o forse una c'è, ed è la mano pesante e biblica di Dio. Il suo primo riferimento filosofico è un Empedocle malinconico e ribelle, letto anche attraverso la lente di Hölderlin.
Nel suo primo romanzo di successo lo scrittore s'innamora di un dipinto di Antonello da Messina, il "Ritratto d'ignoto" del Museo Mandralisca di Cefalù, un sapido conglomerato di manufatti, dalle mazze preistoriche al pianoforte a coda, tributo vano e cosciente di un barone collezionista all'assemblaggio del caos del mondo. Oggi la casa-regno del Mandralisca ha assunto l'aria del museo-ospedale, asettico, iperclassificato, afasico, che i turisti balneari esauriscono in cinque minuti fra un cannolo alla ricotta e una granita di limone. Un altro dipinto, questa volta di Raffaello, è lo spunto indiretto per il terzo romanzo miliare di Consolo, "Lo Spasimo di Palermo" (1998). Quest'ultimo sta a "Nottetempo, casa per casa" (1992) - ambientato anch'esso a Cefalù ma ai tempi di Crowley il satanico - e al "Sorriso dell'ignoto marinaio" come il silenzio sta alla musica e alla parola.
GEOMETRIA. C'è dunque una geometria, una progettualità visibile nella produzione degli ultimi vent'anni, filtrata dalla memoria personale, linguistica e storica. Forse si tratta della parabola tipica che l'intellettuale percorre nel suo rapporto con il mondo, in ogni tempo e in ogni luogo, tuttavia, nel caso di Consolo e del suo tempo che è il nostro, accompagnata e gravata da uno scenario di sofferenza inaudita.
"Lo Spasimo di Palermo" prende il nome da una chiesa in rovina, già lazzaretto e magazzino comunale, oggi simbolo della rinascita della città che ne ha fatto il teatro rinnovato delle manifestazioni e degli spettacoli urbani. Ai tempi d'oro ospitava una tela che Raffaello, secondo il Vasari, aveva dipinto espressamente per la chiesa e aveva chiamato "Sgomento della Vergine e Spasimo del mondo". Poi quella tela finì alla corte di Filippo II, nella migliore tradizione degli omaggi-rapina che affluiscono dalle province al centro dell'impero. Il nome "Spasimo", con la sua tragica musicalità e le sue correlazioni, nel romanzo di Consolo produce quasi una contrattura della coscienza, un annullamento della parola pronunciata, nello sgomento per la violenza di mafia che annichilisce uno dopo l'altro due pilastri della società civile: i due giudici realmente esistiti e soppressi che nell'immaginario del protagonista, tornato in Sicilia, si sovrappongono al fantasma di un vendicatore di celluloide, Judex, una sorta di Zorro che nell'infanzia agitata dell'autore non riusciva mai a liquidare i cattivi perché sempre interrotto dall'arrivo dei bombardieri. Un cinema parrocchiale da cui sfollare, non "Cinema Paradiso" di censurate delizie ma fabbrica di incubi futuri.


A sinistra: Consolo e Sciascia. A destra: «Di qua dal faro», immagine in sovraccoperta.


DUE DOMANDE. Letteratura meridionalista o meridione in letteratura? Il lettore può anche preferire Vigata allo Spasimo, si dirà, e il commissario Montalbano di Camilleri allo scrittore Gioacchino Martinez, alter ego di Consolo. E in quanto spettatore, ha il diritto di non farsi coinvolgere negli spasimi del mondo e di consumare le storie seriali del sergente Garcia, sempre beffato dal mantello di un angelo-giudice sommario che svanisce prima di uno spot e alla fine trionfa con un segno. O no? La questione ne implica un'altra, pendente o sospesa, e cioè: qual è il nesso prevalente che oggi lega il lettore, la letteratura, l'autore e il libro come oggetto d'interesse intellettuale e di mercato culturale? Due questioni eterne e banali. Le poniamo a Vincenzo Consolo. Che così risponde: « Nella mia tragedia "Catarsi", che rappresenta il suicidio di un Empedocle contemporaneo, così dice il protagonista del racconto che fa al pubblico l'antagonista, Pausania. "Che menzogna, che recita, che insopportabile linguaggio! E' proprio il degno figlio di quest'orrendo tempo, di questo abominevole contesto, di questo falso teatro compromesso, di quest'era soddisfatta, di questa società compatta, priva di tradimento, d'eresia, priva di poesia. Figlio di questo mondo degli avvisi, del messaggio tondo, dei segni fitti del vuoto... Dietro il velo grasso delle sue parole di melassa, io potrei scoprirvi l'oscena ricchezza della mia città, la sua violenza, la sua volgarità, gli intrighi, gli abusi, i misfatti, le stragi d'innocenza, d'onore, di memoria, la morte quotidiana, imbellettata come le parole di questo misero ragazzo, di questo triste opportunista..." Non so se si è capita la metafora. La realtà insomma oggi è questa: si è rotto il nesso (analizzarne le cause tocca ad altri) tra il testo letterario e il contesto situazionale. Voglio dire che oggi la cavea del teatro è vuota e lo scrittore non riesce più a stabilire un rapporto coi lettori. Altrove intanto si sono apparecchiati altri teatri, immense platee mediatiche in cui falsi scrittori, furbi imbonitori, divertono e consolano. Non siamo più lì, certo, nello spazio letterario, ma in quello mercantile, della produzione e del consumo della merce più deteriore, se non immorale. Allo scrittore non restano dunque che due soluzioni: l'afasia (il silenzio dello scrittore Gioacchino Martinez de "Lo Spasimo di Palermo") o lo scrivere in forma poematica, spostare la prosa della narrazione verso la forma poetica. I lettori allora certo saranno pochi, ma veri».
Esce in questi giorni il nuovo libro di Vincenzo Consolo: si intitola «Di qua dal faro», Mondadori, 29.000 lire. Intanto lo scrittore annuncia: «Sto lavorando a un libro di saggi di tipo storico-letterario, sociale-letterario, ad esempio sul mondo delle zolfare in Sicilia e sulla letteratura che è nata da questo contesto. A questi si aggiungeranno saggi prettamente letterari su Verga, Pirandello, Sciascia e tanti altri».