Gombrich, il cerebrale
Una vera avventura
intellettuale senza confini
Riscoperte. Il detective dei misteri artistici
Alessandro Dell'Aira
Il giovane Gombrich, futuro teorico dell'arte,
quando studiava nel Collegio Teresiano di Vienna
ricevette in dono due volumi sulla scuola storico-artistica
tedesca. In assenza di televisione ebbe anche
modo di leggerli, e addirittura, come più tardi
osservò con arguzia, di usarli per la tesina di
fine corso, dedicata ai diversi modi di guardare
l'arte dal Winckelmann in poi. Quel dono non era
inatteso: la biblioteca di casa era invasa dai
libri, il Kunsthistorisches Museum era a due
passi da scuola, i suoi genitori, che amavano
Goethe, l'Italia e l'arte rinascimentale,
frequentavano Mahler e Schoenberg, con il quale
sua madre si era rifiutata di suonare perché,
diceva, era "incapace di tenere il tempo".
Ernst non voleva diventare avvocato e si iscrisse
a storia dell'arte. Come primo lavoro gli toccò
da fare la storia della famosa Peterskirche, di
cui Andrea Pozzo avrebbe dovuto realizzare la
cupola. Si appassionò talmente alla ricerca che
Schlosser, il suo futuro maestro, gli propose di
pubblicarla, suggerendogli immediatamente un
altro soggetto: una pisside che passava per
paleocristiana ma in realtà era carolingia.
Ancora una volta Gombrich diede alle stampe un
saggio, e così fece, sempre, con tutti i temi di
storia dell'arte che gli capitava di affrontare
in pubblico o in privato, seguendo i ritmi
scanditi dalla passione personale e dalle
occasioni afferrate al volo, un po' come Aby
Warburg, il famoso critico che aveva riempito
schede su schede passando da un tema all'altro,
apparentemente senza costrutto ma con l'intento
di sperimentare metodi nuovi e di tracciare altri
percorsi di ricerca. Poi vennero per Gombrich i
motivi a palmetta, l'acanto, la gestualità nelle
miniature dei codici sassoni, i calchi dell'Accademia
di Belle Arti, i quadri di Kandinskij. Nel 1932
si recò a Berlino da Woelfflin, che aveva molto
da dire sul senso tedesco della forma nell'arte
italiana, e procedeva per accostamenti di
diapositive, con il sussidio di testi illustrati
che faceva circolare in aula. Un metodo
inconsueto, affascinante, che privilegiava la
fruizione delle immagini rispetto alla lezione
cattedratica. A Berlino Ernst seguì anche
Koehler, docente di teoria della conoscenza, e
vari mostri sacri della critica d'arte, senza
perdersi per questo i musei e i migliori teatri.
Si fermò per sei mesi nella capitale tedesca,
percorsa dal clima montante del
nazionalsocialismo. Poi venne a scegliersi in
Italia un tema significativo. Lo trovò a Mantova
nel manierismo e in Giulio Romano, di cui scoprì
due lettere inedite, conquistandosi la stima
della città. Tornato a Vienna, dove Freud aveva
pubblicato il suo saggio sul motto di spirito, si
dedicò con altri allo studio della caricatura
moderna, che mise in rapporto con la magia di
effigie, teorizzando che all'emozione e al
mistero dell'arte dei primitivi fosse subentrato,
per gradi, il sorriso distaccato della coscienza
che coglie i punti deboli del mondo circostante.
Nel 1935 scrive una storia universale per i
piccoli, tradotta in cinque lingue. Visto il
successo, l'editore gli affida una storia
universale dell'arte, sempre per l'infanzia. Ma
Gombrich osserva che proporre l'arte ai bambini
non ha senso, visto che le immagini per loro non
sono che frammenti di storia illustrata. Il
nazismo incombe: Gombrich decide, come tanti
altri intellettuali perseguitati, di rifugiarsi a
Londra. Insegna negli Istituti Warburg e
Courtauld e si dedica all'Umanesimo e al
Rinascimento. La guerra vanifica il suo progetto
di un manuale di iconografia. Lavora per la BBC e
si dedica, controvoglia, alla vecchia proposta di
una storia dell'arte per i piccoli. Nel 1945
torna al Warburg Institute: ha trentasei anni, è
ancora borsista, ma nel 1950 è già professore a
Oxford, sulle orme di Kenneth Clark. Segue da
vicino Karl Popper, interrogandosi sulla
possibilità di una visione critica non opinabile.
Si pone domande scontate e dunque intriganti, di
cui una provocatoria, la solita: cos'è un'opera
d'arte? Quella "sublime", "eccezionale",
o l'opera significativa, portatrice di valori?
Gombrich, memore del suo maestro Schlosser,
risponde alla fine che l'arte non esiste, ci sono
solo gli artisti. E che la loro attività è
radicata nei repertori della tradizione.
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Ernst Gombrich
durante un'intervista (immagine tratta da
Internet). |
Ernst Gombrich oggi ha novant'anni. Ha diretto il
Warburg Institute dal 1959 al 1976. Ha insegnato
a Oxford e a Londra. Dopo The Story of Art, di
cui ha venduto oltre cinque milioni di copie, si
è occupato di arte e progresso, di relativismo
culturale, di studi sull'uomo. Secondo alcuni è
qualcosa di più e qualcosa di meno di uno
storico dell'arte: qualcosa di meno, perché non
è un connaisseur e non fa il critico a
tempo pieno; qualcosa di più, perché il suo
ambito di ricerca è vastissimo, trasversale,
proprio di chi si guarda intorno e solleva
questioni di ogni tipo, senza aspirare a risposte
definitive, girando intorno ai grandi misteri,
arte compresa, a cavallo di un manico di scopa,
come nel titolo di uno dei suoi saggi. La voce di
Gombrich ci raggiunge sempre come se provenisse
dal suo luogo e dal suo tempo, la Vienna degli
anni venti: ci ha fatto questa impressione anche
la raccolta di saggi e interviste che Einaudi gli
ha appena dedicato. Non si tratta del solito
collage di pagine sparse, riproposte con
disperazione e allegria. A parte due o tre refusi
iniziali, sintomo leggero di cedimento alla
fretta che non va mai sottaciuto, il libro ha una
sua fisionomia unitaria e vivace, soprattutto
nella ricostruzione del mitico clima culturale
viennese, ancora immune dal ciclone di
intolleranza e violenza che sta per abbattersi
sull'Europa.
Ernst H. Gombrich, Dal mio tempo. Città,
maestri, incontri, a cura di R. Woodfield.
Einaudi, pagine 154, lire 28.000.
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