3 (giugno 1995),
pp. 141-146.
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Alessandro Dell'Aira
Il cavallo vincente
La presa di Troia fra
storia e leggenda
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...I've stood upon Achilles' tomb,
and heard Troy doubted; time will doubt
of Rome.
(Byron, Don
Juan)
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Con
l'affermarsi della storiografia scientifica, di
solito un po' prevenuta verso gli autori che non
citano le loro fonti, gli antichi eruditi hanno
perso credibilità sulle questioni di cronologia,
e tra essi anche il latino Plinio il Vecchio.
A volte però la diffidenza nei confronti di
quest'ultimo si rivela eccessiva. Così almeno ci
sembra, quando riflettiamo sull'accenno fugace
alla presa di Troia che appare in un libro della
sua Naturalis Historia: il
trentaseiesimo, dedicato al marmo.
Anche in questo caso lo storico di Como non
circoscrive il campo del discorso: si dilunga
sulle varie qualità di marmo note in natura, per
poi passare alle meraviglie del Mondo e quindi a
quelle d'Egitto. E a questo punto ricorda gli
stupendi obelischi della 'città del Sole',
Eliopoli: Sesote ve ne aveva eretti quattro, e
Ramsete, quo regnante Ilium captum est,
ve ne aveva innalzato un quinto ancora più alto
(XXXVI, 65).
Questo Sesote è quasi certamente Sesostri I,
perché Sesostri II e Ramsete II sono la stessa
persona. Sappiamo che Ramsete II regnò dal 1299
al 1233: la cronologia egizia ha una solidità
d'impianto che fa difetto a quella del mondo
acheo coevo. Si tratta del vincitore dei 'predoni
del Delta' (1290) e a Kadesh (1275/4) degli
Assiri, genti connesse in qualche modo col mondo
egeo-anatolico. Si è pensato che Plinio confonda
Ramsete II con Ramsete III, sul trono dal 1200 al
1168; ma l'ipotesi ha ragione di esistere solo se
si vuole accreditare la data tradizionale della
presa di Troia (1193-1184) anziché la parola di
Plinio.
I curatori della più recente edizione italiana
della Naturalis Historia commentano:
«..Plinio si deve qui riferire o a una
cronologia bassa del sovrano o a una
particolarmente alta della presa di Troia, che
secondo il Marmo Pario sarebbe caduta nel 1209,
secondo Eratostene nel 1184». In altre parole:
poiché siamo certi che Ramsete II finisce di
regnare nel 1233, e poiché due autorevoli fonti
datano la presa di Troia al 1209 o al 1184,
l'affermazione quo regnante Ilium captum est
cade tra gli ultimi anni di Ramsete II e una data
troiana ricavata da una fonte ignota che gioca al
rialzo, e dunque poco attendibile, almeno quanto
Plinio.
Per il momento, e fino a prova contraria,
proviamo a prendere per buona l'indicazione della
Naturalis Historia, che è marginale e
riguarda l'arco intero di un regno (1299-1233)
anziché un anno preciso: se non altro perché si
tratta di un lungo periodo rispetto alle proposte
secche del 1209 o del 1184. Senza entrare nel
merito delle fonti care a Plinio, osserviamo che
il Marmo Pario è una specie di pietra sacra
della cronologia antica che incombe come un
macigno sulla storiografia moderna; e che
Eratostene, bibliotecario di Alessandria
d'Egitto, detto «Pentatlo» per la sua enorme
erudizione, ebbe sottomano gli strumenti per
mettere ordine nelle questioni cronologiche ma a
quanto pare non fu nel suo campo un'autorità
indiscussa, visto che lo chiamavano anche
«Beta», e cioè eterno secondo, di qualsiasi
cosa si occupasse.
La disgrazia di Plinio il Vecchio non fu solo di
morire soffocato dai gas sprigionati della nota
eruzione del Vesuvio: fu anche quella di essere
rivisitato post mortem, nella sua Naturalis
Historia, da un nipote un po' saccente, suo
omonimo e detto il Giovane, il quale si incaricò
di rivedere la stesura originale dell'opera e
radunò in apertura tutte le fonti che lo zio
aveva accuratamente distribuito nella premessa a
ciascun libro dei suoi, quindi anche a quello che
oggi conosciamo come il trentaseiesimo, in cui,
con la scusa del marmo, si parla degli obelischi
di Eliopoli e della presa di Troia.
Sei secoli prima di Plinio, il greco Erodoto
interrogava i sacerdoti d'Egitto alla ricerca di
Troia antica. Ciò vuol dire che i Greci di
allora non ne avevano più notizia certa. Meno
ancora di Erodoto ne sapeva Tucidide, il quale
ammetteva che non esistevano più le prove
storiche della spedizione, anche se, sedotto
dalla figura di Agamennone, concludeva che non
c'era alcuna ragione di opporsi all'evidenza
della tradizione poetica.
Ma è poi così importante stabilire in che anno
gli Achei presero Troia? Non ci basta sapere se
possiamo dare o no credito al testo omerico?
La storiografia di oggi, severa con Plinio il
Vecchio, è molto scettica anche sulla fondatezza
della tradizione omerica. Dobbiamo prenderne
atto, perché lo studio comparato delle tecniche
di tradizione orale usate in tempi e in luoghi
diversi ha riscontrato che spesso il cantore
distorce i fatti, rimuove episodi sgraditi alla
parte narrante, inventa un lieto fine ad uso
dell'uditorio, trasforma le sconfitte in
vittorie, le guerriglie e le incursioni corsare
in guerre guerreggiate e scontri navali, spaccia
gli atti di defezione per gesti di abnegazione.
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Troia (Hissarlik). Il sito
archeologico nel 1990.
Foto:Università di Tübingen, Istituto
di Pre e Protostoria. |
Minore giustificazione ha invece la resistenza
degli storici nei confronti dell'epica
acheo-troiana, quando il dato archeologico,
riesaminato o aggiornato alla luce delle scoperte
più recenti, segna dei punti a favore di Omero e
fa traballare i castelli di carta eretti da
alcuni critici.
Per la verità, anche in antico, il filosofo
Anassagora aveva paradossalmente affermato che,
poiché non c'era la prova della guerra di Troia,
la guerra di Troia non era mai stata combattuta.
Ma abbiamo visto che Erodoto, suo contemporaneo,
preferì informarsi presso altri potenziali
detentori di prove (i sacerdoti egizi); e che
Tucidide, di quarant'anni più giovane, in fondo
non arguì nulla di compromettente dall'assenza
di fonti, né dalle proprie impressioni.
Alla guerra di Troia, o meglio, alla ricerca
della guerra di Troia, ha dedicato di recente uno
studio l'inglese Michael Wood, estraneo agli
ambienti accademici. La sua professione di
giornalista, come lo stesso Wood fa notare, lo ha
portato a navigare in acque certe anziché nelle
secche infide in cui si avventurano gli storici.
Wood ha studiato a Oxford storia moderna, ed è
stato il curatore di una rubrica della BBC, In
Search of..., che volendo cercare raffronti
italiani ci sembra più simile a Quark che
alla Ricerca dell'Arca. Come epigrafe
per il suo saggio, che fa da supporto a una serie
di filmati, Wood ha scelto un brano del discorso
in memoria di Heinrich Schliemann, pronunciato
nel marzo 1891 da Ernst Curtius presso
l'Accademia di Berlino: «Il numero dei secoli
che ci separano da un'età più remota non conta.
Ciò che conta è l'importanza che il passato
riveste per la nostra esistenza intellettuale e
spirituale».
E' questa, in fondo, la prima riflessione da fare
di fronte alla speculazione di Anassagora e alle
inchieste di Erodoto, ionici entrambi e
contemporanei, ma spinti da curiosità e
interessi diversi.
Il problema storico della guerra e dell'assedio
è da sempre esposto agli sviluppi della ricerca,
ma in qualche modo anche al vento che tira. La
questione, in sostanza, dipende in parte da ciò
che gli studiosi di cose antiche si aspettano di
scoprire, in parte da ciò che scoprono (o
trovano) e poi rendono sistematico. E siccome
ciò che gli scienziati sistemano sta alla base
del sapere quotidiano, ne deriva che le
controversie storiche come quella di Troia
stentano ad essere risolte per il fatto stesso
che durano nel tempo, che tendono a diventare
croniche, il che vuol dire che a lungo andare la
loro risoluzione è improbabile. A meno che non
intervengano scoperte inattese.
Inatteso, a proposito di Troia, fu nel 1939 il
ritrovamento dell'archivio del Palazzo miceneo di
Pilo, in Messenia, costituito da tavolette
d'argilla graffite prima della cottura e
ricoperte da una fitta scrittura sillabica, il
Lineare B. Quattordici anni dopo, nel 1953, se ne
ebbe la prima decifrazione, con una scoperta
ugualmente inattesa: quel sistema di segni
esprimeva una lingua greca molto antica. Via via
che la trascrizione e l'analisi dei testi
procedevano, cresceva la speranza di rinvenire
una traccia dell'omerico Nestore, re di Pilo, il
più anziano e rispettabile tra gli Achei accorsi
a Troia, famoso per doti di mediazione e di
signorilità. E invece ne venne fuori un quadro
di emergenza, di una società forse senza più
re, mobilitata contro un pericolo imminente
atteso dal mare. Quale pericolo fosse non è dato
sapere; ma alcune tavolette incompiute rimasero
tali forse proprio a causa del precipitare degli
eventi. Esse sono databili alla fine del XIII
secolo, e cioè a ridosso della data in genere
proposta per la distruzione della Troia omerica.
E qui non ha senso discutere sull'anno esatto
dell'espugnazione, o sullo strato archeologico
con cui identificare la città espugnata (Troia
VIIa o Troia VI): l'unico possibile nesso col
nome della città è il nome di una donna, una
schiava (To-ro-ja) addetta alla
filatura.
Un'altra novità, che illumina la questione e
nello stesso tempo la complica, è la presenza
accertata, lungo le coste dell'Egeo, e
soprattutto nell'isola di Cipro, di resti di
città saccheggiate e incendiate alla fine del
XIII secolo. Insomma, mentre Pompei ed Ercolano
devono la loro fama postuma al fatto di essere
due tipiche città romane conservatesi
in modo eccezionale a seguito di un
cataclisma naturale (l'eruzione del Vesuvio del
79 d.C., fatale per lo sfortunato Plinio il
Vecchio), oggi tende a dissolversi l'eccezionalità
dei resti di Hissarlik, generalmente identificati
con quelli di Troia omerica. Hissarlik non è
più ciò che apparve a Schliemann, e cioè la
collina sulla costa anatolica da cui si poteva
vedere il monte più alto dell'isola di
Samotracia svettare dietro l'isola di Imbro,
scenario immenso che riempiva gli occhi di Zeus,
appostato su quella vetta ed intento a godersi
dal mare lo spettacolo dell'assedio. Oggi
Hissarlik è uno dei tanti centri egeo-anatolici
conosciuti, con tracce evidenti di incendi e
crolli risalenti alla fine del XIII secolo,
dovuti a cause non del tutto chiarite.
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Anfora di
Mikonos con scene della conquista di
Troia. Particolare del cavallo. 670 a.C.
circa. Da K. Schefold, Frühgriechische
Sagenbilder, München 1965, p. 43,
tav. 35a. |
Diffidare dell'epica omerica, dell'entità delle
forze in campo a Troia e della beffa finale del
cavallo, è cosa molto ragionevole: è
significativa l'incertezza dell'Iliade sul
tipo di armi usate e sulle tecniche di scontro
dai carri, sui luoghi di provenienza dei gruppi
achei o sui tempi dell'azione. E' saggio anche
dubitare dell'eccessivo rilievo dato a un
episodio come tanti, e al paradossale espediente
nato dalla mente di Ulisse e dalle mani di Epeo,
ricordato nell'Odissea dall'aedo Demodoco alla
corte di Alcinoo, in presenza del naufrago
misterioso. Molti critici vedono nella leggenda
del cavallo la memoria epica di una macchina
bellica, o la metafora dei favori ottenuti da una
divinità compiacente (Poseidone Hippios
o Atena Hippía), o l'allusione a un
dosso della piana di Troia, dietro il quale gli
armati si nascosero aspettando il momento
propizio.
Un cavallo di Troia come beffa di guerra, una
specie di Pearl Harbour dell'epoca micenea, non
ha infatti di per sé alcuna attendibilità. Già
nel II secolo d.C. un grande illustratore di
antichità greche, Pausania il Periegeta, non
nascondeva la sua perplessità e invocava il buon
senso dei Troiani. Né la scoperta recente, a
Mykonos, di un vaso dell'VIII secolo a.C. con un
cavallo di Troia che pare un'astronave e sette
guerrieri a bordo che occhieggiano da altrettanti
oblò quadrati, ha dimostrato altro se non il
fatto che si favoleggiava del cavallo ancora
prima di Omero.
A proposito del vaso di Mykonos, Michael Wood
scrive che «nella storia del cavallo di legno
c'è un che di inafferrabile, di misterioso». Ma
Wood, che pure ha tralasciato ben pochi indizi
alla ricerca della guerra di Troia, non parla di
un piccolo oggetto rinvenuto nel 1900 a Creta da
Evans e da lui pubblicato nel 1905. Il dato fu
invece ripreso da Leonard Palmer nel suo studio
Minoici e Micenei, edito a Londra nel 1965 e in
Italia da Einaudi nel 1969. Palmer in
quell'occasione formulò un pensiero, che però
represse subito come «vana immaginazione».
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Cretula dal
Piccolo Palazzo di Cnosso, del minoico
tardo III (1570-1050 a.C. circa). Da L.R.
Palmer, Micenoeans and Minoans, London
1965, p. 195, fig. 22. |
Si tratta di un cretula frammentaria con il
profilo di un gigantesco cavallo, sovrapposto a
una nave di tipo miceneo, con un solo albero e i
rematori in azione. Il cavallo è acconciato alla
micenea, con la criniera a ciuffi. Le cretule
erano grumi di argilla su cui si imprimeva un
sigillo, a garanzia di involucri o contenitori,
grosso modo come si fa con i piombini postali di
oggi; ovvero facevano da contromarca o da
ricevuta, come le nostre bollette di carico e
scarico. Secondo Palmer, Evans non era stato
molto limpido nelle notizie dello scavo, perché
quello che aveva trovato non quadrava con le sue
teorie. Ma sembra certo che la cretula, rivenuta
nel Piccolo Palazzo di Cnosso, risalga ai tempi
del Palazzo miceneo di Pilo e quindi all'epoca
immediatamente successiva alla presunta
spedizione di Troia, cui prese parte, secondo
Omero, anche il cretese Idomeneo, con ottanta
navi su millecentoottantasei. Idomeneo, con
almeno altri nove uomini scelti, fra cui Ulisse,
sempre secondo Omero si celò nel ventre del
cavallo, mentre le navi si radunavano al riparo
di Tenedo lasciandosi dietro, beffa nella beffa,
gli accampamenti in fiamme.
Le tavolette di Pilo, secondo alcune letture,
parlano di offerte di erbe aromatiche «a I-QO»,
e di recinti «sacri a I-QO», il Dio Cavallo.
Borea, il vento del Nord che i Greci veneravano
come dio, amava mutarsi in cavallo e una volta
ingravidò le tremila giumente di Erittonio
figlio di Dardano, re della Troade. Al toro
cretese, creatura mediterranea, si affianca ormai
un quadrupede venuto dal Nord, donato ai greci da
Poseidone e domato con i preziosi consigli di
Atena.
Se a trovare l'oggetto di Cnosso fosse stato
Schliemann, si sarebbe forse vantato col re di
Grecia di «avere trovato il cavallo di Troia»
in un pezzo di creta, così come (dicono) gli
telegrafò di aver «guardato negli occhi
Agamennone» sotto la maschera d'oro di Micene.
Ma l'archeologia, come la storia, non si fa con i
'se'. Resta il mistero del cavallo, vendetta
degli Achei, finto risarcimento del furto del
Palladio, mentita fonte di salvezza per una
città deprivata del suo nume tutelare.
Il destino di Hissarlik, come groviglio di
antiche rovine rimescolate con ansia da
generazioni di europei, è oggi nelle mani dei
turchi e delle missioni di scavo ufficiali
animate da ragioni scientifiche. Non sono più i
tempi in cui gli Imperi facevano a gara per
strapparsi a vicenda gruppi di sculture, statue,
frammenti di monumenti classici o primati
scientifici, in campagne di scavo condotte contro
il tempo e spesso contro altri Imperi o nazioni
interessate alla detenzione e allo studio dei
reperti. Se Schliemann inseguiva un suo mito
personale, Dörpfeld era fedele al mandato
ricevuto dalla Germania guglielmina; e Blegen,
l'americano che scavò a Troia dal 1932 al 1938,
si preoccupò di non contraddire le conclusioni
delle ricerche precedenti, e nello stesso tempo
di rendere il più possibile scientifica e
rispettosa la tecnica di scavo. Fu forse il
sentore di guerra che percorreva l'Europa a
rafforzare in lui l'ipotesi del rigetto della
grande guerra voluta dagli Achei, e a suggerirgli
l'idea del crollo di Troia VI a causa di un
sisma, di una Troia VIIa come città di baracche
e di sopravvissuti, forse insidiata da una banda
di predoni stranieri.
Michael Wood, un po' controcorrente rispetto alle
tesi di certa storiografia inglese contemporanea,
rimette invece in gioco la versione omerica degli
avvenimenti, con i necessari distinguo e con
l'anticipazione al 1250 della data tradizionale,
ragionando su quanto emerge dalla lettura degli
archivi ittiti in relazione a Wilusa
(Ilio?) e al suo re Alaksandus
(Alessandro-Paride?). Wood insiste sul carattere
probante di una serie di indizi, combinati in un
contesto unico, che acquistano valore nel loro
complesso anche se nessuno di essi ha ancora il
crisma della prova definitiva.
Alla rete di indizi che portano alla datazione
del 1250, che secondo Wood darebbe a Nestore il
tempo di rientrare in Messenia prima del tracollo
del suo regno, e alla sua capitale Pilo di cadere
dopo una resistenza testimoniata dalle tavolette
in Lineare B, potremmo dunque aggiungere la
cretula di Cnosso e l'inciso fugace di Plinio il
Vecchio, che Wood non ha ritenuto di menzionare.
A Hissarlik, o meglio nelle sue immediate
vicinanze, otto chilometri a Sud-Ovest (presso il
tumulo di Besik Tepe, sito tradizionale della
tomba di Achille) sta scavando una missione
dell'Istituto di Pre e Protostoria
dell'Università di Tübingen. Forse è casuale,
ma Schliemann dovette lottare, e non riuscì a
spuntarla, per la sistemazione dei suoi reperti
nel Museo Archeologico di Berlino, mentre Curtius
gli offriva la sede del Museo Etnologico. La
questione di Troia è ancora una volta affidata a
studiosi di pre e protostoria, anche se gli
archivi ittiti, le fonti egizie e il Lineare B
tendono a trasferire in ambito storico le vicende
egeo-anatoliche del XIII secolo. In compenso, a
Berlino-Charlottenburg, nel 1988, si è
organizzata una mostra sul mondo miceneo, e lo
stesso si è fatto ad Atene nel 1989.
C'è però una spiegazione più logica, e
senz'altro più corretta, alla fiducia accordata
dai turchi alla missione di Korfmann. Korfmann è
un esperto di pre e protostoria nel rapporto fra
Oriente e Occidente, e in particolare fra Asia ed
Europa. Ha elaborato la tesi di una
retrodatazione dei contatti fra mondo miceneo e
mondo asiatico alla prima metà del secondo
millennio a.C., in periodo quindi precedente a
quello della mitica spedizione degli Argonauti.
La missione tedesca, attiva a Besik Tepe dal
1984, ha rinvenuto tracce di almeno una
sessantina di tombe a incinerazione del XIII
secolo, con oggetti e ceramiche a quanto pare non
locali, di ambito 'miceneo'. Wood ha attinto,
finché ha potuto, alle notizie degli scavi
pubblicate da Korfmann nel 1984 e nel 1985. Le
sue notizie sono confermate da una menzione
sull'annuario 1988 dell'Enciclopedia
Britannica, come dato di interesse mondiale
riferito al 1988.
Alcuni storici, quasi per timore di costruire o
riesumare scenari mediterranei sorpassati,
tendono ancora a sottovalutare l'epica omerica
come risorsa a riscontro dell'archeologia
europea, in quanto in essa vedono,
inconsciamente, un germe di eurocentrismo
deteriore. Questo 'peccato originale' potrà
essere lenito e soccorso dalle risorse nascoste
degli archivi ittiti e dalle più recenti
scoperte sulla civiltà dei Traci.
|
Hissarlik.
Il nuovo cavallo di Troia è
un'attrazione che soddisfa le attese del
turismo di massa. La ricostruzione, di
fantasia, è meno imponente del supposto
originale. Una scaletta consente di
entrare nel ventre dell'animale. |
Resta, semmai, da chiedersi il perché di questo
ritorno di fiamma per la questione di Troia, e in
genere per l'archeologia-spettacolo, per i
rinvenimenti sensazionali. I bronzi di Riace, la
Montagna di Dio scoperta nel Sinai da Emmanuel
Anati, la scrittura dei Maya, le nuove scoperte
messicane di Matos Moctezuma sulle civiltà
preazteche, Ebla, i relitti subacquei dell'Egeo,
la tomba di Filippo il Macedone a Vergina e la
presunta tomba di suo figlio Alessandro presso
l'oasi di Siwa in Egitto, esprimono variamente il
desiderio di recuperare certezze sulle radici
dell'umanità attraverso gli scoop archeologici,
le ricostruzioni d'effetto, il protagonismo degli
antenati in lotta con il destino. Ma intorno al
legittimo interesse scientifico non ci sarà
anche un campo di interessi indotti dalla
società massificata? E quanti vantaggi ne
deriveranno alla storia come scienza del passato
e del presente?
Bibliografia
Omero, Iliade, tr. R.
Calzecchi Onesti.
Plinio il Vecchio, Storia Naturale, trad.
A. Corso, R. Mugellesi e G. Rosati, vol. V, libri
33-37. Einaudi, Torino 1986.
L.R.Palmer, Micenoeans and Minoans. Aegean
Prehistory in the Light of the Linear B Tablets,
London 1965.
M. Wood, Alla ricerca della guerra di Troia, Rizzoli,
Milano 1988.
M.I.Finley, The Trojan War, in «Journal
of Hellenic Studies» 84, 1964, p. 1 ss.
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