IL 10 DICEMBRE 1998, in coincidenza con
il cinquantenario dei Diritti dell'Uomo e
con la festa della Madonna di Loreto (nera
come quelle di Tindari e Czestochowa), s'è
aperto a Palermo il secondo Convegno su
San Benedetto il Moro. L'ex pastore di
San Fratello, nato nel 1524, eremita e
poi frate laico dei francescani riformati,
è il primo nero ad essere stato ammesso
in paradiso, con un ritardo secolare di
cui si stanno indagando le circostanze.
Sicché l'antonomasia «santo nero»,
nata subito dalla devozione spontanea
alimentata dalle agiografie di parte,
esprime un sentimento corale, partecipato.
Alla canonizzazione dal basso la Chiesa
rispose solo nel 1807, a seguito anche
delle restrizioni procedurali introdotte
nella prima metà del Seicento.
Gli studi scientifici sulla nerezza vista
dai bianchi sono agli esordi. Hanno per
nemici il paternalismo, il cosiddetto
buonismo, l'autocompiacimento per una
tolleranza esibita a prova dell'assenza
di pregiudizio, e soprattutto il
convincimento che la discriminazione, in
certi luoghi a differenza che in altri,
non è mai esistita. È il destino di San
Benedetto il Moro, caduto in oblio come
patrono minore di Palermo, mentre a San
Fratello e a Santa Maria di Gesù la sua
fortuna si è mantenuta costante in
quanto valore locale incontrastato.
Sarebbe semplicistico, più che
tendenzioso, spiegarne la rimozione dalla
memoria collettiva come una sorta di
eclissi dovuta all'astro di Santa Rosalia
e al suo fascino. Il ragionamento va
ribaltato. Proviamo a chiederci, ad
esempio, quante volte nel corso di
quattro secoli sarebbe stata messa in
scena a Palermo un'ipotetica commedia del
Siglo de Oro dedicata alla Santuzza. Il
fatto è che di commedie sul santo nero
di Palermo gli autori spagnoli del
Seicento ne scrissero più d'una, e che,
nonostante l'osmosi tra Spagna e Sicilia,
nessuno mai si è curato di
«importarle» dalla Spagna o di darne
notizia in loco, se non ora che i tempi
richiedono altre valutazioni storiche. Si
pensi al canonico palermitano di origine
spagnola Pietro Mataplanes, studioso di
Santa Rosalia e di fra Benedetto (di cui
pubblicò una Vita a Madrid nel 1702
attingendo alla Cronaca del Tognoletto),
che pure era informato dell'esistenza di
quel ciclo teatrale, visto che ebbe modo
di condannarlo. Può così capitare, dopo
due convegni e varie performance sul
santo nero riscoperto, di dover prendere
atto che Palermo possiede una grande tela
di Pietro Novelli, rimasta fuori dell'occhio
dei riflettori, in cui fra Benedetto è
ritratto con le sue vere sembianze. Ce l'hanno
segnalata Alfredo e Benedetto Iraci di
San Fratello, cultori e custodi della
memoria di tutto ciò che riguarda il
patrono del loro paese. Il dipinto è
riprodotto nella monografia di Guido Di
Stefano dedicata al Novelli e pubblicata
nel 1989 con prefazione di Giulio Carlo
Argan.
Si tratta di un olio di 428 x 261
centimetri, custodito a Santa Maria di
Monte Oliveto o della Badia Nuova in via
dell'Incoronazione. La chiesa, progettata
da Mariano Smiriglio, architetto del
Senato cittadino, fu iniziata nel 1620 e
ultimata nel 1623, un anno prima della
grande epidemia di peste. Era annessa all'ex
monastero delle Clarisse, fondato nel
1512 in un'area monumentale normanna alle
spalle della Cattedrale, oggi occupata
dal Seminario arcivescovile. Nel 1634 il
Novelli iniziò a decorare la volta della
navata con il tema dell'Ascensione di
Cristo, e le pareti con le storie dei
santi francescani, come gli era stato
chiesto di fare quattro anni prima a San
Francesco d'Assisi. Al 1635 risale invece
questo dipinto, che raffigura il
fondatore dell'Ordine mentre consegna,
con l'aiuto del papa, il cordiglio al re
Luigi IX di Francia in procinto di
partire per la crociata.
Tralasciamo ogni aspetto dei rapporti fra
Novelli e Van Dyck, il quale forse
inserì il frate nella penombra, alle
spalle di San Domenico, nella Madonna
del Rosario e le patrone di Palermo dell'Oratorio
di Via Bambinai (1624-1628),
raffigurandolo come «perdente» rispetto
alla romita Rosalia, in ginocchio al
centro della tela. Lo abbiamo già
scritto nell'Introduzione alla nostra
versione (Palumbo, 1995) della commedia
di Lope El santo negro Rosambuco de
la ciudad de Palermo, data alle
stampe a Barcellona nel 1612. Qui invece
Benedetto divide con il re santo il posto
d'onore davanti all'altare. Perché? Nel
1625 in Portogallo, durante una
processione spettacolare, il «santo
nero», con il titolo «de Palermo» come
nella commedia di Lope, fu associato alla
regina Isabella di Coimbra canonizzata a
Roma qualche mese prima. Lo riferisce una
relazione dell'epoca. Emerge dunque più
volte nell'arco di dieci anni (1625-1635),
in contesti distinti ma secondo un
disegno unico, la determinazione
francescana di promuovere le sorti di un
«santo servitore» di santi di stirpe
regale. La schiavitù era un istituto
ordinario, sicché la tesi era originale
e a suo modo innovativa nel contesto
controriformistico: si intendeva
proiettare in paradiso una realtà
terrena e garantire un patrono ai neri
deportati. Il Benedetto del Novelli regge
una torcia accesa di cera bianca di due
rotoli, ed è utile ricordare che nel
1652 il Senato palermitano deliberò di
offrirgliene tutti gli anni quattro dello
stesso tipo. Inginocchiato, s'inchina al
re più che al santo fondatore e compare
con la sua «vera effigie», come ebbe a
notare nel 1827 Lazzaro di Giovanni. Le
sue fattezze sono invece alterate nel
ritratto che la tradizione attribuisce
alla nipote, in realtà settecentesco, in
cui ricorrono i simboli del Santissimo
Sacramento e del giglio, equivalenti a
santità e purezza. Un ulteriore caso di
sbiancamento si scopre confrontando due
santini della Biblioteca Nazionale di
Lisbona, anch'essi settecenteschi, quasi
identici tra loro ad eccezione che nel
colore del volto del santo.
Ci interessiamo a San Benedetto il Moro
da molto tempo. Sappiamo che i punti di
approccio al tema sono molteplici e tutti
legittimi. A nostro avviso tuttavia, e a
condizione che si usi il metodo
comparativo, la via meno rischiosa e a
minor tasso di equivocità è quella
iconografica. Ce ne è giunta conferma
dal caso di questa tela
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