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CULTURA |
E Pessoa
incontrò
la Coca-Cola
LA STORIA
di Alessandro
Dell'Aira |
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VERSO
LA FINE degli anni Venti del secolo
scorso la ditta Moitinho de Almeida di
Lisbona, in affari con gli Stati Uniti,
aveva l'esclusiva per il Portogallo di
una bevanda frizzante, deliziosa,
rinfrescante, confezionata in bottiglie
di forma inconsueta, con un'etichetta
bianca e rossa come la bandiera a stelle
e strisce. Il nome del prodotto era
scritto a mano con gli svolazzi, stile
registro contabile. La formula era
segreta, il nome esotico e trasgressivo:
Coca-Cola. Gli americani ne andavano
pazzi, si era in pieno proibizionismo e
quella gazosa dolciastra color carruba
poteva aiutare gli alcolisti a redimersi.
Le proposte della concorrenza non erano
all'altezza.
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Il signor Fernando Pessoa, intellettuale
squattrinato di Lisbona, occhiali tondi e
spolverino grigio, traduttore di lettere
commerciali per la ditta Moitinho de
Almeida, stravedeva per la radio, i
futuristi e la rèclame. Pensò che un
lampo di genio avrebbe moltiplicato le
vendite in Portogallo di quella bibita
dal nome equivoco, con effetti a cascata
sul suo stipendio. Ci voleva uno slogan
traumatico, effervescente. Ne inventò
uno di gran forza: Primeiro entranhase,
depois estranhase, prima ti entra nelle
viscere e poi ti esce da tutti i pori.
Impeccabile. Geniale. Più la butti giù
e più ti tira su.
Ogni cosa a tempo e luogo, però. Se uno
slogan così oggi esalta le nostre
miscele di caffè per famiglie, da
gustare all'inferno o in paradiso come
proiezioni estreme del paradosso
consumistico, la bella frase di mano del
signor Fernando Pessoa, che promuoveva il
lancio della Coca-Cola in Portogallo,
virò su se stessa e tornò indietro come
un boomerang. Il professor Salazar era al
governo da poco e quell'intruglio
lambiccato in Georgia da un farmacista
fallito avrebbe fatto i conti con lui,
come tante altre cose che non gli
piacevano. Dentro poteva esserci cocaina.
Ammesso pure che non fosse tossica,
eccitava certamente i centri nervosi. Il
Ministero della Salute portoghese
requisì l'intero stock e ne vietò la
vendita nel paese con un decreto che
durò quarant'anni. L'ideatore dello
slogan rischiò di essere licenziato per
la Coca-Cola. Altro che portarsela a
scuola, come Vasco Rossi. Ma al signor
Pessoa non poteva importargliene di meno.
Lui frequentava le latterie di periferia
e le mescite di buon vino del centro di
Lisbona.
Questo aneddoto, rivelato a un quotidiano
portoghese nel 1992 da un esponente della
famiglia Moitinho de Almeida, ripreso dai
più recenti biografi di Fernando Pessoa,
non è contenuto nel saggio "La
Coca-Cola è così", di Osvaldo
Soriano, inserito da Einaudi in una
raccolta di testi brevi: "Ribelli,
sognatori e fuggitivi", riproposta
l'anno scorso nella collana "Stile
libero". Il sognatore in questo caso
è John Pemberton, l'oscuro farmacista
che in punto di morte, nel 1891, non
volendo portarsi all'altro mondo la
formula decise di cederla in cambio di
550 dollari. Un pessimo affare: chissà
che bevute di Coca-Cola lo aspettavano in
paradiso (o all'inferno) se si fosse
tenuto il segreto. Più la butti giù e
più ti tira su, avrebbe trovato bello
anche l'ultimo viaggio.
Il corrosivo Osvaldo Soriano era un
entusiasta della Coca Cola, che definì
"dolce prodotto dell'imperialismo,
identico a se stesso in ogni parte del
mondo". Ne rivelò la composizione
riprendendola da "Test-Achats",
rivista belga che l'aveva divulgata nel
1979. L'analisi di un litro avrebbe dato
il responso: acida, equivalente a un
caffè, zuccherata, colorata, non più
dannosa di altre bibite in commercio.
Eppure si dice che la chiave della vera
formula resista, custodita da tre persone
che vivono in città diverse degli Stati
Uniti e non si incontrano mai. Il mistero
ci sembra irrilevante. Senza la
bottiglia, senza il profilo della
bottiglia sulla lattina, senza il logo
Old America, senza quest'ultima leggenda
metropolitana, la Coca-Cola tornerebbe
gazosa, perderebbe l'appeal, non avrebbe
gusto, non sarebbe più country.
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