VENERDÌ, 16 APRILE 2004
 
Ma che occhio!
Sa ascoltare


Mariolina Damonte Dallafior al Punto Einaudi di Trento. Così racconta vita e storia la poetessa visiva trentina.



Pagina 49- Cultura e Spettacoli


 
 
 
 
 
 
 
 


di Alessandro Dell’Aira


Nei giorni scorsi Il Punto della Libreria Einaudi di Trento in piazza Mostra ha esibito otto opere di poesia visiva di Mariolina Damonte Dallafior, con la presentazione di Donata Zoe Zerbinati. Titolo della mostra: “L’Occhio che ascolta”. L’occhio vede le cose presenti e le cose rappresentate, l’occhio intende il “visibile parlare”. Concetto espresso da Dante nel decimo canto del Purgatorio di fronte al marmo istoriato della prima cornice del Monte. Un colpo d’occhio di bellissime scene, di una bellezza ignota all’arte degli uomini. Il colpo d’occhio è l’istante in cui l’occhio non s’inganna (vede quello che vede, ma attenzione ai miraggi, colpi d’occhio ingannevoli come i colpi di fulmine del cuore).

La scrittura più antica per l’occhio è la pittura dei primitivi, che su massi levigati e rocce aspre si esprime con segni di immagini vaghe e riproduce avventure di conquista e di caccia, figurazioni e sequenze parlanti. Il pittogramma si frammenta in fonogrammi, svanisce l’immagine, i segni naufragano nel gran mare delle lingue. Dalle fertili macerie della Torre di Babele nascono gli alfabeti sillabici e alfabetici, con il tempo e a fatica. Mariolina Damonte percorre a ritroso questo itinerario dell’arte e della cultura universale quando afferma che la parola scritta è disegno. Disegno e parole si cercano sempre. A volte legano, a volte si impacciano, il più delle volte si respingono fino a rendere le lettere illeggibili e impraticabili alla lingua. Cosicché di nuovo “possiamo apprezzare con grande stupore semplicemente l’elenco delle lettere”. Così recita il cartiglio di una creazione di Mariolina, “Alfabeto”, in cui si citano due versi di “Casamor”, poema meccanico-mistico di Donata Zoe Zerbinati. A Mariolina non occorrono matite né fogli di carta per annotare pensieri e parole con lettere abusate dall’umanità. Le interessano elaboratori alternativi di testi eterni, da usare come alfabeto dell’ispirazione, come inchiostro dell’anima: legno, foglie, pietruzze, conchiglie, scheletri di pesci, granelli di sabbia, frammenti di corteccia e di carta. Pulviscolo di una cosmogonia personalissima, un mondo espresso esclusivamente con cose trovate e raccolte, per esempio le foglie ricamate dai morsi di bruco sul lago di Levico, cariche di un sapere non destinato al vaglio e alla censura del cervello, un sapere che scorre libero nelle vene quasi fosse la linfa di vegetali pensanti. L’albero ha un pensiero di polpa e un discorso di fibra, la carta è cosa del mondo e ne porta il segno. E’ questo il messaggio di una delle otto creazioni di Mariolina, un rotolo di carta alloggiato nel cavo di un tronchetto: “Non sarà vana la morte dell’albero se all’anima sua darai nuova dimora”. Nuove dimore per un sentimento trasfuso nel tronco rugoso di una pianta, o graffito sulla patina gloriosa di una panchina. Cuori incisi da lame leggere, mani che giocano con la memoria. Chi non vuole capire, non capisca. Presuma. Ascolti con gli occhi una scatola ordinatissima e antica di Mariolina, Storia Naturale, con reliquie fossili del Calisio sistemate negli scomparti della scatola, ciascuna corredata della sua cartuccella vergata con inchiostro d’oro esondato a spiegare l’inspiegabile, a complemento dell’etichetta incollata all’interno del coperchio con un messaggio altrettanto arcano e presumibile. Oppure un’altra creazione, la scatola dei libri da tenere sul comodino con dentro i libri di Petrarca e Saramago, e lo stesso libretto di poesie giapponesi di Mariolina, un florilegio di haiku, epigrammi esoterici scritti con le foglie. Diari di foglie con fogliografie. Foglie che vogliono diventare parole, colori che non resistono al desiderio di diventare parole, come ha scritto lo stesso Saramago sviluppando l’intuizione di Rimbaud. Non solo l’occhio guarda distrattamente ciò che appare, ma vede quello che vede e coglie le pieghe segrete dell’essere.