GLI OCCHI AZZURRI DI VERDI erano stanchi sotto il
cilindro, dopo la prova dorchestra. Il
maestro aveva al collo una sciarpetta
scapigliata. Giovanni Boldini gliela stirò a due
mani sul bavero del cappotto, mise in posa il
soggetto e trafficò da chirurgo con i pastelli
temendo che Verdi si spazientisse o che solo
starnutisse. Lincantesimo sarebbe svanito.
Ci mise in tutto tre ore, il tempo di una
Traviata o di un Rigoletto. Era una primavera
Belle Époque, dietro il cilindro del maestro
stanco il cielo si faceva di un grigio tendente
al lillà. «Ho finito», disse il pittore e si
firmò in alto a destra: Parigi, 6 aprile 1886.
«Ma non è una cosa seria», scrisse poi Verdi a
Giulio Ricordi. Troppo tardi: il ritratto era
già stato inciso e riprodotto in migliaia di
copie.
Questa immagine che il ferrarese Boldini rubò al
cigno di Busseto in riva alla Senna fece sognare
capi di Stato, principi e presidenti europei.
Legioni di melomani italiani se ne
impossessarono, la condivisero e ne fecero
oggetto di venerazione, dimenticando le sacre
barbe di Garibaldi e Mazzini. Giuseppe Verdi qui
lascia lopera lirica, si cala
nelloperetta e apre la strada al conte di
Lussemburgo di Léhar. Il celebre pastello sarà
esposto per qualche mese a Padova, a palazzo
Zabarella, accanto al ritratto a olio di tre anni
prima, che non ha mai retto il confronto. La
mostra in centododici pezzi, curata da Francesca
Dini, Fernando Mazzocca e Carlo Sisi, è la
seconda tappa di un viaggio iniziato con i
Macchiaioli. Può però, anzi dovrebbe essere
letta come avventura autonoma da chi vuole
mandare a mente ciò che significa e comunica
lopera omnia di Giovanni Boldini. Dal
ritratto a mezzo busto del padre Antonio, visto
come un insofferente papà Grandet dal figlio
venticinquenne appena rientrato dal suo primo
viaggio a Parigi nel 1867, al ritratto completo
in décolleté di raso scompigliato dal vento
della signora Hewitt, nuora del sindaco di New
York, appoggiata a un roseto nellanno di
grazia 1913, con un ovale di perle che le scende
dal collo allinguine e circoscrive i punti
salienti della sua bellezza. Tra luno e
laltra cè mezzo secolo dEuropa
alla moda. Fanciulle riverse allindietro e
trasfigurate in farfalle prigioniere di una
lezione di piano mentre lanziana insegnante
pesta sui tasti con le dita ingioiellate.
Chiacchiere femminili in salotto su uno sfondo di
festoni e figurine pompeiane schierate sulla
carta da parati. Scene di traffico cittadino rese
con maestria vistosa e coloratissima, con gli
omnibus, i cavalli frenati e i pedoni che si
aggirano in libertà tra le facciate delle
piazze. Fauna da Esposizioni universali e da
panchine perse tra le siepi e i viali del Bois de
Boulogne. Impressionistiche visioni della laguna
e dei canali di Venezia. Autoritratti benevoli,
che esorcizzano la statura minuscola e i
lineamenti un po tozzi dellartista.
Autoritratti rassegnati, in cui lo sguardo non è
più ribelle e il bianco degli occhi conta molto
meno della cresta di fazzoletto che sporge dal
taschino. Incredibili anticipazioni di futurismo
nelle stesure definite da Carlo Ludovico
Ragghianti «elettricamente sintetiche», come
nel Notturno a Montmartre, del 1883 circa, dove
cavalli e carrozza in primo piano si trascinano
sulla tela e spariscono sotto le bolle bianche
dei fanali fermi come palloni sonda. Un
campionario di pittura denso e congestionato,
dalla macchia allenergia. Come ebbe a dire
un intenditore francese, «Boldini è un tale
ammasso di lasciato e di fatto, di falso e di
vero, che bisogna prenderlo comè». Per
farlo in libertà e sentirsi un po viveur
cè tempo fino al 29 maggio 2005, a Padova,
palazzo Zabarella. .