MERCOLEDÌ, 9 FEBBRAIO 2005

 
Boldini
e la Belle
Époque






LA MOSTRA


 


Pagina 41 - Cultura & Società

A PADOVA PER CONOSCERE IL PITTORE DELLA MONDANITÀ
 





 
 
 
 

  di Alessandro Dell’Aira

 


GLI OCCHI AZZURRI DI VERDI erano stanchi sotto il cilindro, dopo la prova d’orchestra. Il maestro aveva al collo una sciarpetta scapigliata. Giovanni Boldini gliela stirò a due mani sul bavero del cappotto, mise in posa il soggetto e trafficò da chirurgo con i pastelli temendo che Verdi si spazientisse o che solo starnutisse. L’incantesimo sarebbe svanito. Ci mise in tutto tre ore, il tempo di una Traviata o di un Rigoletto. Era una primavera Belle Époque, dietro il cilindro del maestro stanco il cielo si faceva di un grigio tendente al lillà. «Ho finito», disse il pittore e si firmò in alto a destra: Parigi, 6 aprile 1886. «Ma non è una cosa seria», scrisse poi Verdi a Giulio Ricordi. Troppo tardi: il ritratto era già stato inciso e riprodotto in migliaia di copie.

Questa immagine che il ferrarese Boldini rubò al cigno di Busseto in riva alla Senna fece sognare capi di Stato, principi e presidenti europei. Legioni di melomani italiani se ne impossessarono, la condivisero e ne fecero oggetto di venerazione, dimenticando le sacre barbe di Garibaldi e Mazzini. Giuseppe Verdi qui lascia l’opera lirica, si cala nell’operetta e apre la strada al conte di Lussemburgo di Léhar. Il celebre pastello sarà esposto per qualche mese a Padova, a palazzo Zabarella, accanto al ritratto a olio di tre anni prima, che non ha mai retto il confronto. La mostra in centododici pezzi, curata da Francesca Dini, Fernando Mazzocca e Carlo Sisi, è la seconda tappa di un viaggio iniziato con i Macchiaioli. Può però, anzi dovrebbe essere letta come avventura autonoma da chi vuole mandare a mente ciò che significa e comunica l’opera omnia di Giovanni Boldini. Dal ritratto a mezzo busto del padre Antonio, visto come un insofferente papà Grandet dal figlio venticinquenne appena rientrato dal suo primo viaggio a Parigi nel 1867, al ritratto completo in décolleté di raso scompigliato dal vento della signora Hewitt, nuora del sindaco di New York, appoggiata a un roseto nell’anno di grazia 1913, con un ovale di perle che le scende dal collo all’inguine e circoscrive i punti salienti della sua bellezza. Tra l’uno e l’altra c’è mezzo secolo d’Europa alla moda. Fanciulle riverse all’indietro e trasfigurate in farfalle prigioniere di una lezione di piano mentre l’anziana insegnante pesta sui tasti con le dita ingioiellate. Chiacchiere femminili in salotto su uno sfondo di festoni e figurine pompeiane schierate sulla carta da parati. Scene di traffico cittadino rese con maestria vistosa e coloratissima, con gli omnibus, i cavalli frenati e i pedoni che si aggirano in libertà tra le facciate delle piazze. Fauna da Esposizioni universali e da panchine perse tra le siepi e i viali del Bois de Boulogne. Impressionistiche visioni della laguna e dei canali di Venezia. Autoritratti benevoli, che esorcizzano la statura minuscola e i lineamenti un po’ tozzi dell’artista. Autoritratti rassegnati, in cui lo sguardo non è più ribelle e il bianco degli occhi conta molto meno della cresta di fazzoletto che sporge dal taschino. Incredibili anticipazioni di futurismo nelle stesure definite da Carlo Ludovico Ragghianti «elettricamente sintetiche», come nel Notturno a Montmartre, del 1883 circa, dove cavalli e carrozza in primo piano si trascinano sulla tela e spariscono sotto le bolle bianche dei fanali fermi come palloni sonda. Un campionario di pittura denso e congestionato, dalla macchia all’energia. Come ebbe a dire un intenditore francese, «Boldini è un tale ammasso di lasciato e di fatto, di falso e di vero, che bisogna prenderlo com’è». Per farlo in libertà e sentirsi un po’ viveur c’è tempo fino al 29 maggio 2005, a Padova, palazzo Zabarella. .