IGOR, maturo scrittore di Duino ex internato in
un lager, si racconta su una rivista francese.
Una parigina, Lucie, gli scrive che la vita
normale a volte è peggio. Igor le risponde,
credendola unex deportata. A primavera
lascia Duino per Parigi, cerca Lucie e la trova.
La scopre di trentanni, graziosa, con
unombra nel volto e nella voce. In una
brasserie senza nome i due si raccontano parte
dei loro ricordi angosciosi e sperano in segreto
in altri incontri. Poi escono e Lucie
dimprovviso si ricorda di un mazzo di fiori
gialli offertile da uno sconosciuto. Igor subito
le regala dei fiori gialli inattesi, in vendita
poco più in là. La salvezza sta in un gesto
inatteso.
E lesordio-messaggio de «Il petalo
giallo», di Boris Pahor, triestino sloveno, da
poco edito edito in italiano da Nicolodi di
Rovereto(190 pagine, 13 euro). In copertina una
folla di girasoli sembrano assistere curiosi alla
vita degli uomini. La foto è di Claudio
Nicolodi, che di Pahor ha già pubblicato «Il
rogo nel porto» e «La villa sul lago». Il
titolo originale è «Zibelka sveta», in sloveno
«La culla del mondo». La culla del mondo è la
donna. E come una culla Igor percepisce Lucie.
Inizia il tormento dei rendez-vous brevi, del
salutarsi per non dirsi addio, della tensione
nota ai pendolari dellamore che
sincontrano in campo neutro nutrendosi di
lettere e parole sfasate rispetto ai pensieri.
Lei ha tempi più controllati di lui, che scrive
molto più di quanto non parli, legge le proprie
carte e le intreccia con le missive di Lucie, in
una sorta di contrabbando della memoria. Finché
la diga non crolla, di un crollo pilotato. Lucie
ha dentro la cenere di un olocausto personale: è
fuggita da casa per evadere dal lager
dellinfanzia e da un filo spinato doppio,
la violenza di un padre sulla figlia bambina, la
violenza di una madre che sapeva e taceva, resa
muta dalla stessa silenziosa tortura subita da
piccola.
Lucie è una psicologa avara di parole. Tra il
dire e il fare Igor preferisce lo scrivere:
«Nonostante tutto il male che ti è
toccato, tu sei viva, puoi prestare ascolto alla
natura e scrivere magnificamente, come tu
sai fare un inno allamore». Anche
se il mondo è pieno di furore, la vita è bella,
ha dichiarato dieci anni fa Eva Thomas, stuprata
dal padre a quindici anni e autrice di «Le viol
du silence» (Lo stupro del silenzio, tradotto in
italiano e pubblicato da Pironti come «Il
silenzio della violenza»). Resistere alla
distruzione è lessenza della vita. Igor
cita Platone e ricorda a Lucie che leros è
fatto anche di intelligenza. Lui ha bisogno di
lei e lei di lui. I nomi di ristoranti e caffè
teatro della ricognizione tra le macerie del
vissuto sono simbolici: Le Train bleu,
LEmbarcadère. Raccontarsi è come mettersi
in viaggio. Le citazioni in chiaro arginano i
dialoghi e il fluire della vicenda. Spetta al
lettore di riflettere sulla storia di Igor e
Lucie, che a fatica decifrano le proprie vite.
Infatti Igor dice tra sé: «Non abbiamo certo
bisogno delle parole per intenderci». Lo avesse
detto a Lucie, sarebbe una storia damore
diversa. E questa la struttura del romanzo
di Boris Pahor, che affronta il problema
dellassimilazione etnica e della
comunicazione asimmetrica, in un confronto che
non si sottrae alla legge del più forte. Quale
legge? Il più forte, nella storia del mondo, di
un territorio, di un gruppo, di una coppia, si
ritiene competente a giudicare e a determinare
linterazione storica, culturale,
comunicativa, e la determina.
Riflessione attuale. Memoria è comunicare, non
tacere. Tutti i giorni. Memoria è rispettarsi,
anche con i silenzi comunicativi, per parlare al
momento giusto. Significativa è una lettera di
Lucie, in cui si cita un sogno raccontato da Eva
Thomas: «Ho fatto questo sogno, Bruno Bettelheim
domanda a un bambino: Allora, come ti trovi
qui? Ma il bambino non risponde, va verso
un armadio a muro, prende una specie di pigiama a
righe, lo dà a Bettelheim che lo indossa; è un
abito di deportati nei Campi. Quindi il bambino
si avvicina e dice: Ora possiamo
parlare». Bruno Bettelheim, psicoanalista
infantile di origine viennese, era stato
internato a Dachau e Buchenwald. Una violenza,
quella dellinternamento, subita anche da
Boris Pahor.