28 gennaio 2012
São Paulo Calling:
un sole per tutti

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[Alessandro Dell'Aira]












..."Favelas, slums e bidonvilles hanno scambi comunitari superiori a quelli dei quartieri pianificati…”. È una riflessione di Lina Bo, milanese, in Brasile dal ‘46, apparsa nell’agosto del 1974 su una nota rivista italiana di architettura. La replica di Bruno Zevi fu banale e paternalista: “Con Lina Bo Bardi non si ha mai voglia di polemizzare... specie da quando vive in Brasile, non tollera più le acrobazie intellettuali europee, soprattutto italiane”.

San Paolo, 27 gennaio 2012. Stefano Boeri, docente di progettazione urbanistica al Politecnico di Milano, già direttore di “Domus” e oggi di “Abitare”, esperto di molteplicità urbana, assessore milanese alla cultura, moda e design della giunta Pisapia, si esprime con la stessa franchezza di Lina. È venuto per la “Jornada da Habitação”, a inaugurare “São Paulo Calling”, la mostra di cui è curatore per conto della Secretaria de Habitação dello stato di San Paolo (Sehab). “São Paulo Calling” è il punto di arrivo di un anno di ricerche di équipe sull’informale urbano, e punto di partenza di un programma molto più ampio.

La mostra, di impostazione accessibile anche ai non addetti, dà spazio a sei aree di San Paolo (São Francisco, Cantinho do Céu, Bamburral, Heliópolis, Paraisópolis e Centro) ma allarga il campo a Mumbai, Bagdad, Mosca, Nairobi, Medellín, Roma. Con un embrione di manifesto, segnala l’urgenza etica e politica del “prendersi cura” di queste realtà, per lasciarsi alle spalle sessant’anni di indifferenza prima, e condanna poi. È paradossale, ha detto Boeri rivolgendosi al pubblico giovane e numerosissimo del Centro Cultural São Paulo, che in tutto il mondo, negli stessi anni in cui si ragionava sui modelli di città nuova, vi si sia stato un gravissimo vuoto di attenzione per il fenomeno nascente dell’informale nelle città. In questi insediamenti oggi vive il 33 per cento degli abitanti urbani del pianeta. Se la popolazione urbana oggi ammonta a circa tre miliardi e mezzo di persone, cioè a più del 50 per cento della popolazione mondiale, ne consegue che i “cittadini informali” sono più di un miliardo e mezzo, e saranno più di due miliardi nel 2050.

Quando all’indifferenza è subentrata la condanna, la reazione è stata di aggredire il fenomeno come se fosse un cancro, per limitarlo e ridurre a formale l’informale. Senza considerare che l’informale si organizza molto più rapidamente degli enti locali e della loro capacità di pianificazione. Dimenticando che si tratta, nel bene e nel male, dei luoghi più trasparenti della civiltà contemporanea. Nella legalità e nell’illegalità. La favela, priva di spazi di mediazione interni, è una città esacerbata di stanze affastellate e moltiplicate all’infinito. Non è un feticcio né un dormitorio, come tanti quartieri delle cinture metropolitane, ma un luogo dove si produce, e dove, come aveva acutamente osservato Lina Bo a metà degli anni settanta del secolo scorso, hanno luogo scambi superiori a quelli dei quartieri pianificati.

Prendersi cura dell’informale urbano, ha concluso Boeri, significa rinunciare alle ricette chiuse e agli editti, per studiare il reale e descriverlo. Significa preparare un Atlante mondiale e altri strumenti che possano agevolare il confronto tra tecnici e politici. Significa favorire soluzioni congrue, come gli orti urbani e le microimprese, mutuando dalla botanica la pratica operativa degli innesti.

Nel bel fascicolo distribuito al pubblico, Ricardo Pereira Leite osserva che se gli urbanisti sono responsabili delle teorie che portano alle soluzioni, i residenti in questi insediamenti urbani ne condividono le responsabilità, in quanto operano direttamente nelle aree studiate, parte integrante della città contemporanea. Il dibattito non deve limitarsi al campo accademico: non si tratta di pensare a un nuovo modello di città, ma “di aiutare un ramo a crescere perché anche gli altri crescano”, sotto un sole che illumini tutti.






 

 

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