Giuramento
in nero
Trento,
confronto sui docenti che dissero no
Storia & fascismo. 1931: Mussolini
impone la dichiarazione di fedeltà negli
atenei
di Alessandro
Dell'Aira
Nel 1931, il fascismo impose ai docenti
universitari il giuramento di fedeltà al
regime. Il rifiuto dei pochi, fu un bel
gesto, un eroismo casuale, una vittoria,
una sconfitta? Fu un atto di opposizione,
ha commentato Paolo Prodi in apertura
dell'incontro "Il giuramento negato.
I docenti universitari e i regimi
totalitari", organizzato a Trento
presso il Centro per gli studi storici
italo-germanici, diretto da Giorgio
Cracco.
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Prodi ha distinto tre tipi di opposizione:
il no al giuramento come consacrazione
del potere; il no al sacrificio dell'autonomia
e alla sottomissione degli intellettuali
e dell'università; il no al fascismo
come totalitarismo. Questo tipo di
giuramento, ha argomentato Prodi, ha
lontane radici nella storia dell'Italia
moderna: va inteso come l'ultimo anello
di una catena che parte dalla professio
fidei imposta da Pio IV alle università
subito dopo il concilio di Trento,
passando attraverso il giuramento di
fedeltà alla Repubblica Cisalpina e allo
Stato liberale (alla Sapienza di Roma,
quattordici docenti su cinquantasette
furono allontanati perché si dissero
vincolati alla Chiesa). Indubbiamente,
obiettivamente, il giuramento fu un
inasprimento dei rapporti tra il fascismo
e la vita intellettuale. Un giro di vite
contro il diritto alla libertà di
manifestare il pensiero. Una restrizione
che non ammetteva deroghe: chi non
giurava era"libero" di lasciare
la cattedra, sicché pochissimi si
rifiutarono, in tutto una ventina, dodici
dei quali in maniera esplicita, motivando
in vario modo. E se per tutti l'insegnamento
e la ricerca erano i punti fermi di una
vita di studio in condizioni di prestigio
e di potere, i dodici decisero di
rinunciare a quella vita, o di viverla in
altro modo, a volte precario. Non fu un
suicidio civile all'acqua di rose, ma un'obiezione
di coscienza, che comportò il sacrificio
dei privilegi e della stabilità. I
dodici sono: Francesco Ruffini (diritto
ecclesiastico), Mario Carrara (medicina
legale), Lionello Venturi (storia dell'arte),
Torino; Edoardo Ruffini, figlio di
Francesco (diritto ecclesiastico, Perugia),
Piero Martinetti (filosofia), Fabio
Luzzatto (diritto agrario), Milano;
Bartolo Nigrisoli (clinica chirurgica),
Bologna; Giorgio Errera (chimica), Pavia;
Ernesto Buonaiuti (storia del
cristianesimo), Vito Volterra (matematica),
Giorgio Levi della Vida (orientalista),
Gaetano De Sanctis (storia antica), Roma.
Il tema degli atenei di Trieste e Torino,
in rapporto con le rispettive città, è
stato tracciato da Anna Maria Vinci e
Angelo d'Orsi. Rievocato il conformismo e
l'obbedienza rassegnata di un ateneo che
da ponte tra le culture divenne un
avamposto, a presidio del confine con il
mondo slavo. D'Orsi, allievo di Bobbio,
piuttosto critico con il maestro, ha
ridimensionato il mito dell'antifascismo
degli intellettuali torinesi e la
pressoché totale freddezza degli
ambienti accademici ("Tutto
tranquillo", commentò per telefono
Solari a Einaudi subito dopo il consiglio
di facoltà che trattò del caso Ruffini,
"Francesco si è dimesso da solo").
Storia
dei dodici irriducibili
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